Che fine ha fatto l’io?

Editrice San Raffaele, Milano 2010
5 Comments

La letteratura sulla mente e la coscienza è ormai vastissima. Anche se la maggior parte dei lavori si limita a suggerire integrazioni o critiche relativamente marginali a posizioni già ampiamente presenti nel dibattito attuale, non mancano tuttavia contributi di una certa originalità, capaci di mostrare le problematiche più stringenti sotto una luce nuova, proponendo così temi inediti alla riflessione.

Questo non è certo il caso di un volumetto di recente pubblicazione, dal titolo intrigante: Che fine ha fatto l’io? Gli autori, Edoardo Boncinelli, un biologo, e Michele Di Francesco, un filosofo della mente, godono di notevole fama, e non soltanto in Italia. In seconda pagina di copertina si legge: «Che fine ha fatto l’io? Un’investigazione, tra scienza e filosofia, appassionante come un giallo di Agatha Christie». Il lettore si aspetterebbe una trattazione vivace, ricca di contenuti, dove si pongano domande non banali e si tentino risposte che, seppur non conclusive, siano almeno in grado di dire qualcosa di nuovo sulla mente. È vero che Boncinelli avverte sin dall’inizio di non essere molto preparato su argomenti come l’Io e la coscienza1; poi, però, si lascia coinvolgere nel dibattito, con risultati – come vedremo – tutt’altro che esaltanti.

Il confronto si mantiene, infatti, a un livello piuttosto basso; il linguaggio è semplice, a tratti quasi elementare, come a voler essere accessibile anche ai non specialisti. Ma la povertà sta soprattutto nei contenuti. Man mano che procede nelle pagine del libro, il lettore si rende conto di trovarsi davanti a poco più che una chiacchierata tra amici al bar: dispersiva, piatta, superficiale e, tutto sommato, abbastanza noiosa. Vengono, sì, affrontati molti argomenti, ma al di fuori di un ordine definito, per lasciarli ben presto cadere, di volta in volta, senza aver fornito almeno qualche spunto di interesse.

Il libro in questione non è soltanto un inutile ingombro in un mondo già popolato di tanti oggetti di cui non si sa cosa fare. È anche dannoso. Non contiene soltanto affermazioni gratuite e sostanzialmente dogmatiche, ma anche errori, tra i quali uno – a mio avviso – alquanto grave. Di tutto questo vorrei parlare nelle pagine che seguono. Cominciamo con alcune affermazioni non sostenute da adeguati argomenti, autentiche “perle” di saggezza filosofico-scientifica:

  1. Boncinelli: «La coscienza non serve assolutamente a nulla. Proprio come il linguaggio»2. E ancora: «Non dobbiamo pensare che la coscienza […] sia qualcosa che potenzialmente ci avvantaggi»3, e anche: «Come biologo so […] che la coscienza e il linguaggio sono accidenti. Di questo non dubito minimamente; se poi siano la stessa cosa, è un altro discorso»4.  Per finire con: «La mia impressione è che la coscienza sia, per così dire, il rumore di fondo, ma non sia necessaria»5. Passi pure la convinzione che la coscienza non abbia alcun ruolo di valenza adattativa, cioè che essa rappresenti un mero epifenomeno. Dopotutto è una convinzione abbastanza diffusa (anche se probabilmente sbagliata) tra gli “addetti ai lavori”, che deriva per lo più dal timore che riconoscere una funzione alla coscienza implichi inevitabilmente attribuirle una capacità causale indipendente dal cervello, e quindi fare delle concessioni al dualismo. Ma sul linguaggio: come si fa a dire che il linguaggio non serve a niente? Sulla base di quali argomenti? Per quanto si cerchi, nel libro non se ne trova neppure uno.
  2. Boncinelli: «Secondo me si dovrebbero chiudere tutte le facoltà di psicologia, perché ci raccontano delle cose mitologiche, degne di Prometeo, dei Titani, di Vulcano…»6. Per di più: «non è mai esistito un test che sia in grado di dire qualcosa sulla personalità di un individuo»7. Alle obiezioni del suo collega, Boncinelli chiarisce nelle pagine successive che intendeva riferirsi a una certa psicologia da salotto o da studio televisivo. Rimane però il fatto che i due autori abbiano ritenuto di conservare nel libro le affermazioni relative alla totale inutilità delle discipline psicologiche e alla incapacità descrittiva e predittiva di qualsiasi tipo di test. E, del resto, Boncinelli, nelle sue osservazioni iniziali, chiamava esplicitamente in causa le “facoltà di psicologia”. L’impressione dominante che se ne ricava è che Boncinelli parli sulla base di una conoscenza piuttosto approssimativa, dando ampio spazio ai propri pregiudizi e alle proprie idiosincrasie.
  3. Altre affermazioni che riporto testualmente senza commenti (si commentano da sole, per la loro oscurità): a. Di Francesco: «L’idea della tematica dell’io non è unitaria, ma si scompone in varie parti: per esempio una parte relativa all’individualità e una alla coscienza»8. b. Di Francesco: «Siccome l’io contiene la tua personalità, ha maggiore spessore della coscienza, non solo in atto, ma anche in potenza»9. c. Boncinelli: «La verità non la troverai, ma alla verità puoi tendere; quanto all’io, invece, se non c’è non c’è»10.

Per quanto riguarda l’errore, tutt’altro che marginale, individuabile nelle argomentazioni sviluppate da entrambi gli autori, esso è abbastanza diffuso, anche se si presenta in forme diverse, che talvolta è difficile ricondurre a un comune denominatore. In linea generale, si può dire che tale errore consista essenzialmente nel confondere tra loro elementi naturalistici con elementi che, al momento, non si lasciano ricondurre interamente al mondo della natura o, almeno, tale riconduzione è da considerarsi problematica.

Il naturalismo scientifico può essere definito (con una formulazione “minimale” che dovrebbe essere condivisibile per tutti) come quella concezione della realtà per la quale ogni cosa è spiegabile in termini di eventi fisici osservabili – almeno in linea di principio – con i metodi empirici della scienza. Concezione che vieta di annoverare tra i possibili fattori causali, che agiscono sugli oggetti e sugli eventi del mondo, entità o fenomeni non fisici, cioè empiricamente non rilevabili. Sia Boncinelli che Di Francesco vorrebbero muoversi in maniera pienamente allineata col naturalismo scientifico, condizione del resto considerata irrinunciabile per conferire un minimo di credibilità a una posizione qualsiasi. Eppure, nelle loro argomentazioni, essi sembrano non poter evitare, qua e là, di fare l’occhiolino a concezioni che, solo a prezzo di un’indebita forzatura, possono essere fatte rientrare nel dominio del naturalismo tradizionale.

Cominciamo con Boncinelli. Egli dichiara di non credere che possa esservi una molteplicità di spiegazioni11: «la spiegazione è unica, o non è spiegazione»12. Ma altrove osserva: «il mio io è una costruzione che si svolge nel tempo, perché è partito fin dall’inizio come interazione fra il mio corpo e l’ambiente nel quale sono vissuto»13. E ancora: «la soggettività è il prodotto della corteccia cerebrale»14; affermazione alla quale viene però contrapposta quest’altra: «la soggettività risente enormemente anche delle convinzioni che ho mutuato dalla società»15. Boncinelli dovrebbe a questo punto chiarire il proprio pensiero, alla luce della propria convinzione che si dia una sola spiegazione per ogni caratteristica della realtà, specificando se – a suo parere – si può rendere conto in maniera esaustiva dell’Io e della soggettività sulla base dei soli eventi cerebrali (malgrado non siamo ancora in grado di precisare quali), oppure se sia necessario far riferimento anche a fattori psicologici, sociali, culturali o, magari, alla storia del soggetto. Poiché, se ciò che accade nel cervello non è sufficiente per spiegare compiutamente la nostra vita mentale, allora vuol dire che il naturalismo scientifico è falso. Se invece ogni caratteristica della mente ha una specifica corrispondenza con una costellazione di eventi ben individuabile a livello cerebrale, nel senso che tali eventi sono da ritenere causalmente sufficienti a determinare le caratteristiche stesse, perché prendersi il disturbo di chiamare in causa altri elementi, fondamentalmente incompatibili con il naturalismo scientifico?

E veniamo a Di Francesco. A differenza di Boncinelli, egli ritiene che la realtà possa essere investigata da molti punti di vista differenti, non essendo neppure scontato che esista una prospettiva di osservazione privilegiata. «In questo quadro – egli scrive – spiegazioni psicologiche e persino narrative o (al limite) artistiche, possono dirci qualcosa che è cognitivamente rilevante per la comprensione della mente umana, purché non si pongano in rotta di collisione con i dati assodati della ricerca scientifica»16. Come si traduce una simile concezione nella pratica filosofica di Di Francesco? Si traduce in argomentazioni assai discutibili: «Potrei dire che io sono un organismo biologico dotato di un Io, qualcosa che possiamo concepire in analogia a un software – un programma, o meglio un insieme fantasticamente complesso di programmi e circuiti implementati nel mio cervello». Discorso prettamente “naturalistico”, il quale tuttavia prosegue con:

Ma integrati col mondo – che unifica la mia esperienza-del-momento in un contenuto fenomenologico unitario; produce la continuità della mia mente nel tempo, la (relativa) coerenza dell’autobiografia interiore che mi auto-attribuisco, stabilisce almeno alcune delle priorità che guidano la mia azione consapevole, e influenza almeno in parte tale azione – il tutto in una relazione dinamica e altamente strutturata con l’ambiente fisico e sociale con cui io sono in contatto (una relazione così stretta da rendere il discorso sulla natura dell’io come essenzialmente aperto all’estensione nel mondo fisico e sociale)17.

Ho voluto riportare per intero quest’ultimo passo di Di Francesco per rendere meglio l’idea di quali equilibrismi siano divenuti capaci certi filosofi di oggigiorno pur di continuare a occupare uno spazio all’interno del quale non hanno evidentemente più niente da dire. Invito il lettore a porsi nella prospettiva del naturalismo scientifico e dire se sono conciliabili con essa formulazioni quali “la mia esperienza-del-momento” (i trattini hanno presumibilmente la funzione di conferire al concetto una connotazione più “dotta”), per di più unificata “in un contenuto fenomenologicamente unitario”; a cui vanno aggiunte: la “coerenza autobiografica interiore che mi auto-attribuisco” e la “relazione dinamica e altamente strutturata con l’ambiente fisico e sociale con cui sono in contatto”.

Il punto fondamentale è che, alla luce della concezione naturalistica del mondo, qualsiasi manifestazione a livello mentale non può che avere una precisa corrispondenza nell’organizzazione cerebrale, in termini di modificazioni che intervengono nei circuiti nervosi e in linea di principio rilevabili. Tali modificazioni non vanno pensate come eventi che accompagnano le manifestazioni mentali, magari in congiunzione con altri eventi o effetti di natura completamente differente, bensì come fattori causalmente sufficienti a determinare quelle manifestazioni in tutti i loro aspetti. In altre parole, per il naturalismo, non possono esistere “storie” o “influssi” (sociali o culturali) che non corrispondano a tracce, più o meno consistenti – potenzialmente osservabili – conservate in una qualche zona della materia cerebrale18. In una simile prospettiva, quando ci si confronta con il problema della relazione tra attività cerebrale e fenomeni mentali (ossia con quello che viene tradizionalmente chiamato problema mente-corpo), è quanto mai pretestuoso invocare l’influenza della “storia dell’organismo” o dei condizionamenti da parte della società, della cultura o, ancora, del vissuto dell’individuo nella propria dimensione cosciente, magari in una stretta relazione con l’ambiente esterno, come fattori integrativi, necessari per giungere a una adeguata comprensione del mentale.

Questo modo di procedere (anche se molti autori sembrano non rendersene conto) implica la credenza che ciò che avviene nel cervello non sia sufficiente per spiegare esaustivamente le diverse manifestazioni della mente. Da cui la pretesa di mescolare elementi appartenenti al mondo dei fenomeni fisici ordinari (l’attività del cervello, vista fondamentalmente come scambio di segnali elettrochimici tra cellule nervose, magari integrata con specifiche modificazioni dell’ambiente esterno) con elementi che, a tutti gli effetti, sono da considerare, essi stessi, appartenenti alla sfera di quel “mentale” che si vorrebbe spiegare: la cultura, l’influsso dell’educazione, i condizionamenti della società ecc.19. Se a ciò si aggiunge che il tutto viene spesso abbondantemente condito con concetti emergentisti, che postulano la nascita di proprietà imprevedibili e inspiegabili alla luce delle comuni leggi fisiche, in organizzazioni della materia molto complesse20, è facile capire perché l’attuale riflessione sulla mente continui a girare in tondo, senza sapersi districare dalla moltitudine di problemi in cui si trova immersa. Molti problemi sono anzi da ritenere una conseguenza, più o meno diretta, di un modo di porsi superficiale, ambiguo e comunque assai lontano da quel rigore che argomenti tanto impegnativi richiederebbero.

Credo sia venuto il momento di dire basta a simili giochini concettuali che non portano da nessuna parte e, anzi, non fanno che accrescere la confusione che già regna in questo campo. Sono convinto che solo portando alla luce e denunciando con forza le ambiguità e le contraddizioni che si annidano nella riflessione contemporanea sulla mente sia possibile far sì che certe pratiche argomentative vengano definitivamente abbandonate e rimanga un maggiore spazio per temi più seri. La strada da percorrere si prospetta ancora assai lunga e non è escluso che debba prendere direzioni assai diverse rispetto a quelle seguite fino a oggi, anche se allo stato attuale delle nostre conoscenze è molto difficile dare indicazioni definite in tal senso. Probabilmente bisognerà attendere importanti e rivoluzionarie scoperte in campo neuroscientifico, capaci di modificare radicalmente la concezione che abbiamo della mente.

Ritengo comunque che il naturalismo, almeno per come esso viene oggi concepito, non sia una prospettiva capace di condurci a una soluzione soddisfacente del problema del rapporto tra mente e cervello. Si tratta però di una mia convinzione, maturata in seguito a una serie di considerazioni che reputo importanti21, ma che non pretendo sia accettata come verità indubitabile. Quello che tuttavia sarebbe auspicabile da parte di chi assume (o afferma di assumere) il naturalismo come base di riferimento per le proprie argomentazioni è che sappia essere conseguente fino in fondo, senza lasciarsi tentare da facili scappatoie. E questo anche se, allo stato attuale della riflessione sulla mente, non solo non si riesce a intravedere una via d’uscita dagli enormi problemi aperti, ma diventa sempre più difficile dire qualcosa di davvero rilevante. A volte però è meglio tacere, rimanendo nell’ombra, piuttosto che cercar una effimera visibilità intervenendo nel dibattito con tesi ambigue e sicuramente non utili al progresso della conoscenza.

In conclusione, da personaggi impegnati da anni in ricerche che hanno per oggetto la mente, mi sarei aspettato qualcosa di più che una serie di discorsi tutto sommato inconcludenti, di luoghi comuni (nel senso della semplice ripetizione di concetti ampiamente espressi da altri), senza praticamente alcun contributo originale. E ciò fino al punto di riproporre in maniera acritica anche un serio errore annidato in alcune recenti posizioni sull’argomento. Fa davvero meraviglia che un’opera del genere sia stata pubblicata da un editore che porta il nome di un’istituzione prestigiosa come il San Raffaele di Milano.

5 responses to “Che fine ha fatto l’io?

  1. è molto interessante questa recensione,

    ma riguardo le affermazioni di boncinelli rispetto alla impossibilità di trovare questo benedetto «io», ho un’opinione diversa, che mi son fatta leggendo questo testo e altri di boncinelli

    secondo me boncinelli vuol dire che non c’è nessun «io» come entità rintracciabile, distinguibile, ulteriore e altra rispetto alle strutture celebrali

    infatti afferma che la «sensazione» di avere un io esiste, e definisce (lo ha fatto anche nelle conferenze al festival della mente lo scorso anno) la corteccia cerebrale un «grande imbrogliona», per cui da processi reali, diciamo concretamente elettrochimici, emerge questa illusione, questo trompe l’oeil (metafora mia)

    quindi, non siamo molto distanti dal sé che emerge dal processo della mente di cui scrive damasio, cioè un processo che non è una «cosa» ma che comunque accade e ha conseguenze importanti

    quindi, alla base c’è il corpo, sempre e solo il corpo da cui la mente emerge anche nella sua versione dotata del sé, quella più recente in termini di evoluzione

    mi scuso per le approssimazioni, in ogni caso la recensione è molto interessante

    1. Il commento, pur nella sua brevità, rivela una notevole conoscenza dell’argomento. Quindi non posso fare a meno di commentare, a mia volta.
      Sono d’accordo con la Sua “lettura” della posizione di Boncinelli riguardante l’io: “non c’è nessun io, come entità rintracciabile, distinguibile, ulteriore o altra rispetto alle strutture cerebrali”. Del resto, questa è la posizione dominante non solo nelle neuroscienze, ma anche nella filosofia della mente.
      Il fatto che esista la sensazione di avere un io e che essa non sia altro che un’illusione (“la corteccia cerebrale è una grande imbrogliona”) non Le pone però dei problemi? Non rimane forse la domanda di come sia possibile l’esperienza cosciente di avere un io, di come essa abbia origine da fenomeni elettrochimici?
      Il problema è ancora più grande se si afferma che la mente emerge da un processo (che non è una “cosa”), “ma che comunque accade e ha conseguenze importanti”.
      Suppongo che le “conseguenze importanti” vadano riferite agli affetti che la mente ha a livello comportamentale.
      Non trova che ci sia una contraddizione insanabile nel ritenere che l’esperienza cosciente, con annessa illusione dell’io, costituisca un mero prodotto dell’attività elettrochimica del cervello e nel contempo credere che questo fenomeno abbia delle “conseguenze importanti”? Poiché, ovviamente, tali conseguenze sono da considerare qualcosa in più, qualcosa di diverso, rispetto ai sottostanti processi nervosi. Altrimenti perché prendersi il disturbo di parlare di eventi mentali, e non limitarsi alla più semplice attività del cervello, facilmente osservabile con i metodi oggettivi della scienza?

  2. Non trova che ci sia una contraddizione insanabile nel ritenere che l’esperienza cosciente, con annessa illusione dell’io, costituisca un mero prodotto dell’attività elettrochimica del cervello e nel contempo credere che questo fenomeno abbia delle “conseguenze importanti”?

    no, ottimo prof. calisi, non la ritengo una contraddizione, al massimo un evento stupefacente, se vogliamo anche affascinante, difficile da spiegare, ma non c’è, secondo me, alcuna contraddizione

    un evento chimico, fisico, biologico, puo’ sviluppare significati ulteriori, culturali, incardinati in una sfera antropica «superiore», ulteriore

    tento una metafora: se io leggo un capolavoro della letteratura, per esempio «delitto e castigo», il mio libro, quello che sta sul comodino, è comunque una fila di fogli cuciti, inchiostro che è impresso su di essi, un oggetto concreto che però «contiene» il romanzo che è qualcosa d’altro

    così la mente cosciente (e qui mi faccio al grandissimo filosofo a.g. biuso) è «il processo» dove emergono i significati, che però funziona solo se c’è quel complicatissimo garbuglio che è il cervello concreto, l’organo

    intendiamo però: la spiegazione «fisiologica» è il confine dove si arriva da una certa strada, nessuno è da considerare uno sciocco se ritiene che possa esistere qualche entità non misurabile e valutabile nel mondo fisico, però è, allo stato, per me, un atto di fede, poeticamente bello, umanamente fecondo, ma in sostanza ci devi credere già prima di arrivarci

    la ringrazio per la considerazione, e verrò sempre a leggerla con interesse

  3. Confesso che mi costa una notevole fatica accettare come non contraddittoria l’idea che la mente, mero prodotto dell’attività cerebrale, possieda delle qualità (o meglio un’efficacia causale) che l’attività cerebrale sottostante non avrebbe, malgrado che tutto questo sia da considerare “un evento stupefacente, se vogliamo anche affascinante, difficile da spiegare”.
    Per una persona che si interessa della mente, anche tale differente modo di valutare i rapporti tra certi fenomeni, non può non diventare materia di studio. Perciò non posso fare a meno di domandarmi quali siano le reciproche concezioni di sfondo che rendono per l’uno altamente problematico la relazione tra la mente e il cervello, mentre per l’altro semplicemente stupefacente o affascinante.
    Trovo un indizio per una possibile risposta poco più avanti: “un evento chimico, fisico, biologico, può sviluppare significati ulteriori, culturali…”
    Secondo la mia ottica non esistono significati nel mondo. E’ l’uomo che attribuisce significati agli oggetti e agli eventi di cui è testimone. O meglio, è la sua mente a farlo, che va quindi posta all’origine di ogni fattore dotato di rilevanza culturale, compresi i significati.
    Anche un “capolavoro della letteratura”, in edizione lussuosa o in edizione tascabile, supereconomica, è tale solo in riferimento all’uomo. In un mondo privo di uomini sarebbe soltanto una “fila di fogli cuciti”, anzi neppure quello, poiché la nozione di “foglio” e di “cucito” rimanda comunque alla storia e alla cultura dell’uomo.
    Sono orientato a credere che il Suo modo di porsi di fronte alle problematiche della mente derivi – come, del resto, traspare spesso nella letteratura specifica contemporanea – dal dare per scontati aspetti o proprietà che appartengono solo alla mente e non agli oggetti fisici del mondo inanimato. Se si parte della propria esperienza personale e dai concetti che derivano da essa, può sembrare “normale” che un sistema artificiale faccia riferimento a “significati”, e magari anche a “valori”, vivendoli nella propria dimensione soggettiva, così come accade per gli esseri umani.
    Ho provato ad affrontare questa delicata questione in una recensione dedicata a una recente opera del filosofo tedesco Thomas Metzinger (su questo stesso sito: ). Non sono sicuro di essere riuscito a chiarire adeguatamente il mio pensiero in proposito, cioè ad esporre, almeno negli aspetti essenziali, i limiti di questo modo di porsi nei confronti di certi fenomeni e proprietà della mente. In ogni caso, la recensione al libro di Boncinelli e Di Francesco può essere considerata un approfondimento sullo stesso tema, inquadrato in una prospettiva leggermente diversa.
    A mio avviso, l’affermazione che “la mente cosciente è il ‘processo’ dove emergono significati” è condivisibile, purché si parta dal presupposto che la mente è qualcosa di radicalmente differente da qualsiasi sistema artificiale oggi realizzabile dall’uomo. Una differenza che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non sembra poter essere colmata invocando improbabili “proprietà emergenti”, oppure ricorrendo a concetti del tutto ad hoc quali quello di “corporeità” (embodiment) o estendendo la mente all’ambiente esterno (esternismo) o, ancora chiamando in causa la “storia” dell’organismo (o del sistema).
    Si tratta – come ho cercato di mostrare nel mio libro Oltre gli orizzonti del conosciuto, pubblicato meno di un anno fa – di altrettanti espedienti volti a nascondere i problemi, al fine di far apparire il dominio del mentale un po’ meno incompatibile con gli ideali del naturalismo scientifico.
    Non credo sia questa la strada per superare gli enormi problemi posti dalla mente. Anzi, sono convinto che una delle principali condizioni per progredire nella nostra conoscenza in questo campo sia quella di spazzare via il più rapidamente possibile simili artifici, mostrandone la reale natura… Ed è quello che cerco di fare nella maggior parte dei miei scritti, non so con quanto successo.

  4. sono d’accordo che la mente umana presenta problematiche e aspetti che ben difficilmente potranno essere acclarati in modo esaustivo

    sono anche d’accordo che la cultura dell’uomo è un aspetto determinante, decisivo, nel tracciare una diversità anche qualitativa rispetto alle creature più vicine in termini evolutivo

    il sé autobiografico è una proprietà quasi totalmente solo umana, per cui nella sostanziale continuità evolutiva bisogna rilevare, ad un certo punto, che per l’uomo sul substrato animale «semplice», si è sovrapposto un uomo «culturale», una nuova natura della quale non si puo’ fare a meno

    però, ottimo prof. calisi, io non vedo alcun «problema», vedo solo un essere vivente con caratteristiche davvero interessanti, affascinanti, complesse, che saranno sempre oggetto di studio

    io non ho letto il suo testo, che senz’altro merita attenzione e rilievo, spero di farlo (non subito perchè purtroppo non vivo di studi ma di tutt’altro mestiere)

    è stato un piacere interloquire con lei, con una persona del suo livello

    a rileggerci

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.