Il codice del mito. Il sogno di Platone e l’incubo dell’Occidente

Mursia, Milano 2017
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Questo libro possiede l’indubbio fascino che emana come di riflesso da Platone ogni volta che se ne parli in maniera competente e appassionata. Tuttavia – cosa che forse da un lato ne accresce il fascino, dall’altro talvolta fa storcere il naso – ci troviamo di fronte a una scritto ambiguo, quantomeno su alcuni punti critici, su giudizi e interpretazioni di molti passi platonici. Anche il mio giudizio su di esso, dunque, non potrà che essere ambiguo.

Parte consistente del testo è costituita da spiegazioni ed esegesi dei miti di cui è disseminata l’opera di Platone: la biga alata, la teoria della linea (che in senso stretto mito non è, ma che al mito è funzionale), la caverna, Er, la scrittura. Colamedici è molto attento a seguire passo passo il testo platonico, in modo tale da non lasciarsi sfuggire passaggi importanti che solitamente vengono tralasciati o a cui non viene attribuito il giusto peso. Sotto questo aspetto, il libro può essere considerato come un’utile e importante introduzione per chi voglia accostarsi a questi temi, trattati in maniera chiara e comprensibilissima.

Oltre questo primo livello di lettura, troviamo anche pane per i denti del lettore più avvertito, che può confrontarsi con le interpretazioni offerte da Colamedici. Salta subito all’occhio l’importanza conferita a Platone dall’autore: solitamente si cita il noto passo di Whitehead secondo cui la storia della filosofia occidentale non sarebbe altro che una serie di note a piè di pagina a Platone; secondo Colamedici, invece, «Whitehead è stato fin troppo cauto nel definire la portata del filosofo greco: è la storia dell’Occidente a essere una serie di note a piè di pagina a Platone, tanto la nostra mente è stata modellata dalle sue opere» (pag. 11). Se però è vero che probabilmente tutta la storia della filosofia, con le influenze dirette e indirette sugli eventi storici, deve moltissimo a Platone, ed è altrettanto vero che con tutta probabilità questi sia il filosofo più importante della storia del pensiero, cionondimeno non posso concordare con le conclusioni a cui porta il ragionamento di Colamedici, ossia che in un modo o in un altro siamo tutti platonici, qualunque cosa facciamo, qualunque cosa pensiamo: «Puoi essere kantiano oppure marxista, puoi rivolgerti al dio chiamandolo il grande Altro, puoi fare parte dei nichilisti, ma se vivi nel mondo occidentale, psicologicamente sei platonico, marchiato indelebilmente con il segno della caverna nel cuore e nella mente e in ogni fibra del corpo» (pag. 191). Tale affermazione mi sembra tanto suggestiva quanto falsa, come del resto la seguente: «È con Platone che nasce il soggetto, l’io. È lui l’inizio dell’esaltazione della razionalità che sfocerà poi nel cristianesimo, nello scientismo, nel capitalismo e […] nella società dei social, pura esaltazione del soggetto» (pag. 194). Mi pare che se le cose stessero davvero così, ci troveremmo a brancolare nella famigerata notte in cui tutte le vacche sono nere. Se tutto fosse platonico, ogni posizione sarebbe uguale: il monismo come il dualismo, il razionalismo come l’irrazionalismo, la religione come l’ateismo, il liberalismo come il marxismo, e così via. Nulla varrebbe la critica, il confronto, lo scontro, la distinzione, l’opposizione. Se tutto è uno, quantomeno nel pensiero, non credo che ciò possa essere nel nome di Platone, o quantomeno non solo nel suo nome. È ben vero che ci ha offerto molti strumenti dialettici, tanta parte del linguaggio tecnico non solo filosofico, ci ha fornito un immaginario al quale costantemente attingiamo, ci ha permesso di conoscere l’idea, il mito più bello, ossia Socrate; ma questo non significa ancora che siamo tutti platonici: non è platonico Hegel, non lo è Nietzsche, men che meno lo è Spinoza. Certo, a chi voglia occuparsi di filosofia corre forse addirittura l’obbligo di un confronto perenne con Platone forse più che con altri (probabilmente nel nostro stato di cose solo Nietzsche regge queste confronto; e non è un caso); ma questo ancora non significa che si debba essere per forza platonici, non più di quanto essere immersi in una società cristiana significa essere tutti psicologicamente cristiani.

Gli altri due punti critici del testo – ne sottolineo le problematiche per metterne in luce la fecondità filosofica, anche e soprattutto dove non condivido il pensiero di Colamedici – sono a mio avviso la questione delle dottrine non scritte e la vecchia ma ancora fascinosa teoria della mente bicamerale.

Ho sempre guardato con sospetto all’annosa questione delle dottrine non scritte di Platone. Leggendone adesso in questo libro, anche se viene affrontata nel torno di pochissime pagine, mi sono rinsaldato nella mia convinzione: riguardo alle dottrine non scritte bisognerebbe essere coerenti, ossia non scriverne. Stiamo parlando di un niente, di un qualcosa che assomiglia alla busta misteriosa dei quiz televisivi e che ci affascina per questo. È il mistero, il segreto, l’esoterico: poi nessuno sa di cosa parliamo davvero. Il tranello platonico sposta la questione su un piano esoterizzante, misterico, mistico: si lancia il sasso e si ritira la mano. Platone saprebbe la cosa più importante, possiederebbe la conoscenza più profonda e vera, ma – che peccato – non ce l’ha potuta dire, perché non ce l’ha fatta a metterla per iscritto, la scrittura non lo consente. Ma anche se le ha dette a qualcuno, questi non può a sua volta metterle per iscritto, perché proprio non si può. Tanto valeva attenersi a Gorgia, e via. «Ha fatto, fa e farà male a tutti i platonisti l’idea che il loro filosofo del cuore non abbia lasciato per iscritto ciò che sapeva di più importante» (pag. 108). Senonché poi si va alla ricerca di questo non detto, non scrivibile negli scritti stessi, come se fosse «possibile risalire alla sostanza di questi principi [i principi primi, probabilmente l’Uno e la Diade] attraverso varie testimonianze inserite da Platone tra i dialoghi, oltre a considerazioni prodotte da Aristotele nella Metafisica e da filosofi e storici successivi, tra cui Alessandro di Afrodisia, Aristosseno, Teofrasto, Sesto Empirico e Simplicio» (pag. 109). Non so se dipenda da Platone che ci abbia marciato, o piuttosto da noi che ne siamo attratti, ma l’effetto vedo-non vedo ci eccita, sia in ambito sessuale che in campo filosofico. Il meccanismo psicologico è lo stesso che ci porta a credere alle conoscenze arcane e perdute, alla verità di tutti i sancta sanctorum e riti iniziatici e misterici. Un esempio divertentissimo che mette alla berlina questa nostra propensione è nel film Brian di Nazareth dei Monty Python: Brian, per sfuggire alla cattura, si mischia ai profeti che predicano sulla pubblica piazza, ma con scarso successo; fino a quando pare stia per dire qualcosa di importante, ma si accorge che le guardie sono passate oltre, e allora interrompe il discorso senza concludere la frase, scatenando la curiosità e la devozione del popolo. Ovviamente per quanto riguarda le dottrine non scritte di Platone la faccenda è più complessa, ma credo che in fondo scatti il meccanismo “busta misteriosa”; credo che alla fine dei conti sarebbe meglio attenersi agli scritti, che sono l’unica cosa certa; è già difficile interpretare quelli, senza cercare una verità oltre, al di sopra, più vera e importante e che presenta tutto sommato pochi e confusi indizi.
Se dovessi dare un giudizio complessivo su questo libro, direi che ne apprezzo moltissimo le spiegazioni dei miti e il volere andare a fondo nelle interpretazioni; ma ne rigetto l’approdo misticheggiante o religioso, o meglio anche spirituale in senso lato. Un esempio su tutti – e arriviamo alla seconda questione problematica –: Colamedici sembra sostenere in qualche modo che gli dèi esistano, quantomeno come princìpi divini, come energia spirituale; addirittura si parla di “mistica astrale”, come se le stelle e i pianeti «testimoniano gli dèi, li raccontano talmente bene da prenderne il nome» (pag. 52).

Per dimostrare l’esistenza o almeno la presenza degli dèi, Colamedici si rifà alla “vecchia” teoria della mente bicamerale di Julian Jaynes, secondo la quale «gli dèi erano organizzazione del sistema nervoso centrale e li si può considerare come persone, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitorie» (Jaynes citato a pag. 39). L’area di Wernicke, nell’emisfero destro del nostro cervello, se stimolata, fa udire delle voci, delle ammonizioni, dei consigli, finanche delle melodie che l’individuo avverte come proveniente al di fuori di sé. Secondo Colamedici, questo non significa che gli dèi non esistano, quanto piuttosto che utilizzino questo canale per comunicare: «Il fatto che su sollecitazione elettrica o esistenziale gli dèi rispondano non implica che siano falsi. Il fatto, cioè, che emergano alla bisogna dalla nostra psiche non significa che non abbiano esistenza di per sé» (pag. 42). Questo però mi sembra un ragionamento fallace: se stimolano un’area del mio cervello che mi fa avvertire una fitta al braccio come se me lo accoltellarselo, ciò non significa che l’accoltellatore abbia esistenza di per sé e utilizzi il canale del mio cervello per farmi sentire che mi accoltella il braccio. Così se un neurologo stimola un’area del mio cervello che produce un qualunque effetto, ciò significa semplicemente che un neurologo sta stimolando quell’area del mio cervello che produce quel determinato effetto. Basterebbe il principio ockhamiano: entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.

È sempre bello leggere un libro su Platone, certo a patto che come questo offra molti spunti interessanti e sia puntale, rigoroso nel seguire il testo e spiegarlo, al di là delle personali conclusioni che poi ne può trarre l’autore.

È un libro che vive in un buon equilibrio tra esegesi serrata e interpretazioni personali; proprio in virtù di questo equilibrio lo può leggere con piacere anche un ateo impenitente, materialista e meccanicista come me. Tuffarsi nell’oceano platonico, anche solo tramite libri su di lui, procura sempre una soddisfazione intellettuale. È vero, come ho detto, che a mio avviso non tutti siamo platonici; ma il piacere immenso che può procurare la filosofia non può fare a meno di passare attraverso Platone e a lui periodicamente e frequentemente ritornare.

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