Communitas

a cura di Carlo Bordoni, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2013.
Leave a comment

Nell’era della globalizzazione, che appiattisce e uniforma il pensiero e il linguaggio, la solitudine e il disagio individuale sono sempre più diffusi. Si fanno strada il bisogno di aggregazione volontaria e il riconoscimento reciproco su fondamenti comuni, per quanto problematizzati dalla necessità di un’integrazione culturale e razziale. Non può più esistere la comunità di appartenenza, ma esistono le comunità, alle quali apparteniamo contemporaneamente, per tutta la vita o solo per qualche giorno. L’attenzione nei confronti di questi argomenti si sta risvegliando forse per rispondere all’urgenza di un generale spaesamento e alla tensione che ognuno di noi vive fra il desiderio di conquistarsi uno spazio individuale e quello di fare parte di un gruppo.

Ancora una volta Zygmunt Bauman, che per anni ha orientato la sua indagine sociologica sul rapporto tra individuo e società, tra singolo e collettività, torna sul tema della comunità con il nuovo libro Communitas. Uguali e diversi nella società liquida. Si tratta di un ulteriore contributo alla riflessione e alla comprensione delle dinamiche sociali che caratterizzano la modernità liquida. Superando definitivamente la concezione romantica di Ferdinand Tönnies di una originaria e perduta Gemeinschaft, e a partire dalle posizioni di Victor Turner, da cui viene ripreso l’uso del termine latino, Bauman pone a confronto societas e communitas. Due concetti complementari e imprescindibili nell’esistenza di ciascun individuo: la comunità sopravvive nel locale, nel luogo in cui si è nati, nell’ambiente che ancora ci rassicura; la società è il mondo intero, è la vastità, lo spaesamento, la solitudine. Siamo individui condannati alla marginalità, figli di una società che ci abbandona, ci esclude e al tempo stesso vittime di una comunità di provenienza che ci imprigiona. Libertà o sicurezza? Come afferma il sociologo polacco durante questa conversazione con Carlo Bordoni, «sugli uomini grava questa maledizione: la costante necessità di scegliere» (pag. 51).

Come spesso accade, per definire un concetto si guardano le differenze: lo studioso comincia col dirci ciò che la comunità non è, ma senza alcun piglio retorico. La comunità, quindi, non è la società e non è la rete. Nella rete infatti – i social network per intenderci – siamo liberi, siamo artefici delle nostre azioni, e per questo forse sovraesposti, in-sicuri. La comunità, invece, proteggendoci ci vincola, è solida, sempre presente ma per questo esigente. Già nel 1992 Bauman definiva la postmodernità come l’età della contingenza e, allo stesso tempo, senza contraddirsi, come «l’età della comunità, del desiderio smodato di comunità, della ricerca di comunità, dell’immaginazione di comunità»1. In che modo la comunità può rappresentare un appiglio duraturo, come essa può renderci individui liberi? I fili sono troppo imbrigliati e il libro non offre ricette risolutive, ma ci consente di porci continue domande. La comunità dovrebbe innanzitutto essere generatrice di solidarietà, ma questo non è un dato acquisito, va conquistato. Ad esempio, secondo Bauman il precariato andrebbe affrontato attraverso la solidarietà, quindi con il passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé”: bisognerebbe unirsi come facevano gli operai nella società industriale. Oggi invece riusciamo perfino a diventare nemici di chi naviga sulla nostra stessa barca piena d’acqua.

Ma anche ammettendo la solidarietà come elemento intrinseco alla comunità, questa non cesserebbe di essere gabbia, vincolo, autorità. Probabilmente è l’uniformità il rischio da combattere, ma il circolo è vizioso: la solidarietà nasce spesso dall’uniformità, siamo solidali quando condividiamo gli stessi problemi. Ecco allora che l’idea di una fantomatica comunità senza uniforme veste i panni dell’utopia. Il paradosso di questo ragionamento risiede nel binomio comunità-identità. L’una rappresenta il limite dell’altra: l’identità tende ad essere esclusiva, la comunità, invece, inclusiva.

Per Bauman una delle cause più evidenti della crisi della società liquida risiede nell’espropriazione subìta dalla politica, mutilata di ogni forma di potere reale. Non esistono istituzioni capaci di agire, raccogliere e realizzare le esigenze e i bisogni di una collettività. «Non abbiamo simili istituzioni», afferma il sociologo, «perché la nostra politica è limitata al livello dello Stato-nazione, mentre il potere si trova già oltre le frontiere nazionali» (pag. 54). Il rapporto tra globale e locale è il tormentone della nostra epoca, che si guardi il mondo dal punto di vista dell’individuo, della città, dello Stato. C’è sempre un globale con cui misurarsi e il metro è sempre troppo corto. Dal punto di vista delle città la scissione tra potere e politica è devastante. «La situazione è questa: le città contemporanee sono una sorta di bidoni della spazzatura, dentro i quali i poteri globali lasciano cadere i problemi affinché vengano risolti» (pag. 56). In questo contesto la nascita di Cittaslow2 è un tentativo, riuscito, di riorganizzazione a partire dal locale, una possibilità concreta di trasformare la “città in sé” in “città per sé”. Non è una soluzione definitiva, tanto meno globale, ma rappresenta una presa di coscienza importante.

Bauman ci fornisce l’ennesima lezione di civiltà, nel senso proprio della conquista di una consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, come individui, come cittadini. Non promette soluzioni, né previsioni. Dipinge un affresco dove riconoscersi. Lo stesso affresco, se ci pensiamo, che ci aveva fornito con Modernità liquida e con tutti i suoi precedenti contributi. Questo libro-intervista, insomma, non ci dice nulla di nuovo. Semmai, quel che risulta più interessante è proprio la scelta del titolo: Communitas richiama immediatamente l’omonimo libro del filosofo italiano Roberto Esposito3, ormai divenuto un classico del pensiero filosofico intorno alla comunità. Una seppur breve riflessione è quindi dovuta: si tratta di due diversi approcci, l’uno sociologico, l’altro filosofico allo stesso tema, che oggi diventa sempre più centrale nel dibattito culturale internazionale, dove ‘community’ è candidata a parola del secolo. Allora sarebbe interessante interrogarsi sul perché due linee di ricerca che condividono lo stesso oggetto di indagine viaggino parallele. Tra i testi di Esposito e di Bauman sembrano non esserci punti di intersezione.

Lo studioso napoletano contribuisce con una sua personale e innovativa riflessione al dibattito filosofico sul tema della comunità, proprio a partire dall’etimologia del termine: cum-munus, con-dono; la comunità, quindi, come relazione e non come sostanza, come espropriazione e non come appropriazione. In tutte le lingue neolatine ‘comune’ è ciò che non è ‘proprio’, che comincia laddove il proprio finisce. Per restare sul piano del linguaggio, possiamo notare un’altra curiosità: «niente in comune» è il titolo del primo paragrafo del testo di Esposito, dove viene enunciato il punto di partenza della sua riflessione e uno degli ultimi testi di Bauman si intitola «Cose che abbiamo in comune». Quella nozione di identità che, come abbiamo visto, incarta il ragionamento del sociologo polacco, qui viene completamente smossa, per diventare taglio, contaminazione, differenza. I membri di una comunità non sono uniti da una proprietà, dal fatto di possedere qualcosa che li accomuna, ma da un debito, da una mancanza che consiste nel donare qualcosa di sé agli altri. Per Esposito la comunità deriva da «uno svuotamento – parziale o integrale – della proprietà nel suo negativo. Da una depropriazione che investe e decentra il soggetto proprietario forzandolo ad uscire da se stesso. Ad alterarsi»4.

Perciò, al contrario di quanto afferma Bauman, la communitas è ben lontana dal rappresentare un appiglio sicuro, una protezione; piuttosto, essa espone completamente il soggetto – che nel frattempo è diventato un “non soggetto”, o piuttosto un soggetto della propria mancanza – al rischio della perdita: «quello di perdere, con la propria individualità, i confini che ne garantiscono l’intangibilità da parte dell’altro. Di scivolare improvvisamente nel niente della cosa»5. Il ‘niente’ diventa l’elemento costitutivo della comunità, nel momento in cui essa smette di essere soggetto collettivo o insieme di soggetti, ma diventa la relazione stessa che non li fa più essere tali. La comunità è una privazione che avviene nell’atto del donare. Quindi c’è un buco, un vuoto al posto dell’identità: se il vuoto venisse riempito dalla cosa, allora essa si realizzerebbe, e realizzandosi diventerebbe identità, autorità, vincolo. Proprio quegli stessi elementi messi in luce da Bauman come limiti della comunità.

Al di là di una presa di posizione, e lungi dal contrapporre questi due differenti e fondamentali approcci al tema della comunità, emerge con chiarezza un dato che certo non ci sorprende: la sociologia si basa su quello che è già stato, analizza le dinamiche sociali esistenti per spiegarle, interpretarle, ma senza dare risposte definitive. Come afferma lo stesso Bauman durante la conversazione con Carlo Bordoni: «non posso fingere di avere doti profetiche. Non le ho, infatti, e la sociologia non insegna a profetizzare. Torno a ripetere che la sociologia spiega ogni cosa, a patto che sia già avvenuta nel passato, altrimenti non ci permette di predire il futuro. Spesso la gente si arrischia a fare delle previsioni traendo deduzioni dalle tendenze contemporanee» (pag. 49). La filosofia, invece, come ci conferma la posizione decisa e puntuale di Esposito, forma idee e concetti, più o meno condivisibili, sull’essere nel mondo, sullo stare al mondo. Esposito non dubita per un attimo del suo pensiero, lo espone, lo avalla, lo chiarisce come se fosse il migliore dei pensieri possibili, e quasi quasi ci convince.

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.