Davanti a una fotografia. Immagini, metodi d’analisi, interpretazioni

Bonanno editore, Acireale (Ct) 2019
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«La vecchia contesa fra artisti e fotografi per decidere se la fotografia è un’arte è un falso problema. Non si tratta di sostituire la pittura con la fotografia, ma di chiarire i rapporti fra la fotografia e la pittura d’oggi, e di mostrare che lo sviluppo di mezzi tecnici, nati dalla rivoluzione industriale, ha contribuito materialmente alla genesi di forme nuove della creazione visiva». Per Laszlo Moholy-Nagy, figura di spicco nella cultura filmica, pittorica e fotografica fra le due guerre, l’uomo, grazie alla fotografia, ha la possibilità di vedere ciò che lo circonda con occhi nuovi: la natura, colta attraverso l’occhio della macchina fotografica, è diversa dalla natura percepita dall’occhio umano, l’apparecchio fotografico è in grado di perfezionare e di integrare il nostro strumento ottico, l’occhio. La fotografia riesce a cogliere le multiformi nuance del chiaroscuro e del colore, è in grado di aprire a nuove dimensioni dello spazio, della materia e del movimento e sa catturare la luce, fissandola sulla carta: crea in questo modo una “nuova visione”. Oltre ad adoperarsi per definire lo specifico fotografico, Moholy-Nagy insisteva sull’importanza della conoscenza delle tecnologie coeve. Non poteva, però, prevedere i vertiginosi sviluppi della tecnica nel secolo a venire. Una tecnica che, oggi, può oscurare piuttosto che valorizzare la creatività, marginalizzando il ruolo dell’io. L’avvento del digitale ha ridotto e ottimizzato i tempi di “lavorazione” sull’immagine ma tende a rendere i processi legati alla post-produzione più decisivi rispetto alla fase della produzione stessa.

In merito a questa dicotomia tecnica/creatività Vilém Flusser, filosofo e massmediologo praghese, ha proposto in Per una filosofia della fotografia (1983) una sua originale interpretazione storico-filosofica relativa all’espressione e alla comunicazione umana. Dall’idolatria, che consisteva nella divinizzazione delle immagini, si è passati alla testolatria, nata contro il pensiero magico, per approdare alla fotografia, espressione emblematica di immagine tecnica, il cui obiettivo, inizialmente, era di restituire rilevanza all’immagine, sollevando l’uomo dalla dipendenza esclusiva dal pensiero concettuale. A sua volta, però, questa terza rivoluzione nelle articolazioni del “dire” umano rischia di generare una dipendenza: quella dalla tecnica, che può condurre alla perdita della coscienza critica. La trasposizione tecnica tende a diventare più reale di ciò che rappresenta o esprime: per sottrarsi a questo insidioso scivolamento, il fotografo si dovrà sforzare «di produrre informazioni impreviste, di estrarre, cioè, qualcosa dall’apparecchio e di mettere in immagine ciò che non figura nel suo programma». Dovrà recuperare la sua libertà creativa (anche “contro” le possibilità della macchina), per fotografare l’improbabile che sfugge all’omologazione e alla referenzialità tecnicamente evoluta ma ridondante nella forma e limitata nella sostanza. Una fotografia informativa e/o artistica di valore è quella che scompagina l’orizzonte delle attese, che riscrive le convenzioni del “patto visivo” ricorrendo all’incongruità, grazie a uno sguardo dissacrante che depista le aspettative e scombussola consolidati schemi mentali. A questo proposito va detto che, sulla linea tracciata da Flusser, negli ultimi cinquant’anni la produzione di immagini incongrue a scopo artistico, pubblicitario, ludico, nonché per fini sperimentali, ha conosciuto un notevole incremento.

È questa una delle questioni che percorre in filigrana alcuni dei saggi che compongono l’intrigante volume Davanti a una fotografia. Immagini, metodi d’analisi, interpretazioni, a cura di Giovanni Curtis e Giacomo Daniele Fragapane, Bonanno editore, 2019. Il rapporto fra creatività e tecnica disegna nuove articolazioni dello statuto estetico della fotografia. «La sua natura meccanica e automatica, piuttosto che escludere la soggettività dal processo creativo, ideativo o immaginativo, come sostenevano i suoi detrattori ottocenteschi, conferma […] che non esiste alcuna struttura metafisica della realtà» (Fragapane). La tecnica va usata nella direzione di una funzione simbolica e di una dimensione esistenziale, vanno privilegiati i risvolti inventivi e filosofici dell’atto fotografico. La fotografia deve recuperare l’empatia necessaria nel rapporto con la realtà, non può risolversi in fredda elaborazione elettronica, non può mettere al centro «immagini superdigitalrenderizzate, effetti su effetti, ma gli affetti della/nella comunicazione» (Di Cintio).

Il libro prospetta una rassegna dei metodi di approccio al testo/oggetto fotografico, con l’analisi di singole foto condotte da nove studiosi (fra cui gli stessi curatori), alla luce di una polifonia critica che rende conto della ricchezza e della varietà degli schemi interpretativi ma che non ne preclude l’integrazione e i reciproci arricchimenti. L’analisi, peraltro, non può considerarsi mai definitivamente conclusa: attraverso il rapporto fruitivo-interpretativo non solo si arricchisce l’opera aprendola a una “germinazione continua” di relazioni semantiche ma si partecipa al suo farsi, si viene interpellati nel processo della sua creazione. Parafrasando alcuni aspetti del noto schema narratologico di Seymour Chatman, “osservatori reali” – coloro che nel corso del tempo guardano le fotografie – le arricchiscono di nuovi sensi rispetto agli “osservatori impliciti” – l’idea di pubblico che l’artista aveva nell’atto di produrre l’oggetto fotografico.

I metodi di approccio sono fondamentalmente di tre tipi: semiotico, antropologico, fenomenologico. In base all’approccio semiotico, rigorosamente intratestuale, di ogni testo fotografico si istituisce un sistema di significanti e significati «e non si pensa affatto che l’intento dell’autore […] sia fondamentale per spiegare il senso dell’immagine» (Curtis). Due gli orientamenti predominanti nella metodologia semiotica: quello interpretativo e quello generativo. Per il primo, con direzionalità che potremmo definire induttiva, si prende in considerazione la manifestazione espressiva e successivamente il contenuto; il contrario accade se si privilegia l’impostazione generativa, in cui ci si dedica prima all’analisi delle strutture profonde del contenuto, successivamente alle manifestazioni espressive. In base all’approccio antropologico si ritiene che il testo/oggetto fotografico non sia autosufficiente ai fini di una lettura esaustiva, per cui si ritiene necessario indagare i contesti extratestuali: quelli di produzione, come i fattori storici e culturali intervenuti al momento dell’atto fotografico, sia dal lato del fotografo che dei soggetti fotografati; quelli d’uso – il luogo in cui la fotografia viene utilizzata come documento – come i libri, le cartoline, le vetrine. Infine i contesti di ricezione: le situazioni in cui le fotografie vengono fruite, i rapporti fra gli osservatori e le fotografie stesse. Se invece ci si affida al metodo fenomenologico-sperimentale, si privilegia un’analisi psicologico-introspettiva dei propri vissuti in relazione all’immagine percepita e ci si confronta con le impressioni colte dagli altri osservatori per verificare la condivisione o meno del “percepito”.

Ma al di là dei vari grimaldelli interpretativi, può valere per la fotografia – come per ogni opera d’arte – il suggestivo assioma di Ágnes Heller: «L’opera d’arte non è soltanto una cosa: è anche una persona e ha un’anima»; e ancora: «Le singole opere d’arte, queste persone, sono in grado di parlare. Si rivolgono a noi, dobbiamo soltanto osservare, leggere e ascoltare». Una fotografia ci parla: sta a noi attivare i giusti sensori per ascoltarla e renderla, così, viva.

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