E, per passione, la filosofia

DG, 2006
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Anche lo studente più appassionato, durante la sua carriera universitaria, può perdere di vista i motivi, le domande, la curiosità e l’interesse originari che l’hanno spinto a scegliere la filosofia come disciplina su cui scommettere il proprio futuro.

Il libro di Augusto Cavadi, E, per passione la filosofia (DG editore, collana “Gratis et amore hominis”, 2006), restituisce il senso delle semplici e grandi domande filosofiche, ed anche se l’obiettivo principale dell’autore è introdurre alla filosofia le persone che non l’hanno mai studiata, il libro è forse più utile e risulta più gradevole ad uno studente ormai esperto dei grandi temi filosofici.

La prima parte del libro è intitolata Cinque (buone?) ragioni per occuparsi di filosofia (pur senza farne un mestiere). Qui Cavadi spiega, con l’aiuto di Aristotele, l’inutilità della filosofia: essa «come le cose belle della vita, è in-utile: non è al servizio di null’altro» (pag. 11). Tale caratteristica si esprime in un aggettivo particolare: teoretico, cioè né pratico, né tecnico, che non riguarda né l’agire né il fare, ma il contemplare. Il libro ci ricorda sin dalla prima pagina che la filosofia non può ridursi a mero sapere storico, ad una storia dei suoi personaggi illustri, bensì che essa trova la sua autentica dimensione nella gratuità ed originalità del pensiero, senza mai ignorare la sua tradizione.

La prima e principale buona ragione per occuparsi di filosofia è: per passione intellettuale. Se la filosofia è, negativamente, in-utile, positivamente essa è «finalizzata al piacere di conoscere come stanno davvero le cose» (pag. 15) ed alla ricerca della verità.

L’autore accenna allo scontro (dovuto a ragioni più fittizie che reali) tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, con delle parole (sue e di Hans Jonas) che meritano di essere citate interamente:

So che tra i miei colleghi filosofi ‘continentali’ (differente, per fortuna, la posizione degli anglosassoni) è di moda sparlare delle scienze: ma sarebbe interessante sapere quanto davvero le abbiano coltivate prima di contestarle. Senza contare che solo la “malattia di cui la filosofia ha sempre sofferto: una certa idiosincrasia nei confronti della natura” è la principale responsabile del “potere totalitario” che la scienza naturale tende ad esercitare nella società contemporanea: così non sarebbe acceduto se la filosofia stessa non avesse “abdicato ad affrontare le cose della natura” lasciando all’approccio matematizzante delle varie scienze “l’intero mondo corporeo (…), privato di ogni interiorità”. (pag. 16)

La filosofia non è l’unico sapere di tipo teoretico, anche le discipline scientifiche, originariamente, lo sono; ma ciò non implica che quest’ultime possano rendere vana la ricerca filosofica (come certi filosofi analitici propongono): la scienza non risponde alla fondamentale domanda del perché esista un universo anziché il nulla. E’ ciò che intendeva Wittgenstein quando diceva: «Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. » (Tractatus logico philosophicus, 6.52).

E’ proprio il persistere della domanda, paradossalmente, che fa la buona differenza tra la scienza e la filosofia, è la curiosità intellettuale la buona ragione per occuparsene.

La seconda e la terza buone ragioni sono rispettivamente centrate sui concetti di statuto epistemologico e Weltanschauung, visione del mondo.

Ogni individuo potrebbe rendersi conto di quanto la filosofia sia (in un senso diverso dal normale) utile, se si chiedesse quali siano i fondamenti, lo statuto epistemologico della propria disciplina-lavoro-occupazione, se portasse a termine un’indagine metascientifica su ciò che abitualmente fa per vivere. Non è difficile come sembra: si tratta di sfruttare il proprio essere soggetti pensanti, di eludere le categorie ed i sistemi, ormai iperspecializzati, della cultura umana, al fine di trovare un senso originario al proprio lavoro (qualunque esso sia). Fare ciò significa già essere filosofi, amanti del sapere e di se stessi, significa filosofare per consapevolezza professionale.

Chi ama questo modo di pensare (ma anche di vivere ed agire), può compiere un passo ulteriore ed importante: cercare un senso alla propria vita. Ogni persona ha una propria visione del mondo, una certa concezione della realtà. Il passo che la filosofia può compiere è quello della conoscenza e dell’apertura ad altri modi di pensare, punti di vista, visioni del mondo alternative alla propria, evitando così ogni fanatismo dogmatico ed ogni chiusura mentale. Questo è filosofare per orientamento esistenziale.

Per lo stesso motivo, la filosofia è utile «a decondizionarci dall’educazione – religiosa o irreligiosa o indifferentista – ricevuta», «essa ‘serve’ a dare al confuciano, all’islamico e all’ateo la possibilità di ‘relativizzare’ le proprie dottrine» (pag. 31). Contro ogni fondamentalismo ed integralismo, a favore di una comunicazione tra le culture, riconoscendo nelle differenze delle risorse e non delle minacce, la filosofia «ci fa avvertire preventivamente l’altro come fratello, l’altra come sorella» (pag. 34). E’ la quarta buona ragione per occuparsi di filosofia: filosofare per discernimento religioso.
La quinta ed ultima consiste nel filosofare per responsabilità politica: il diritto alla felicità collettiva e sociale; saper scegliere tra gli schieramenti politici; distinguere diversi modelli di civiltà, criticando la propria concezione del mondo e rendendola, allo stesso tempo, unitaria e coerente; sfruttare i propri condizionamenti socio-culturali, facendoci i conti. Tutto questo significa, ancora una volta, fare filosofia.

Nella seconda parte del libro, Di che si occupa chi non si occupa di qualcosa in particolare, Cavadi affronta il pensiero filosofico dal suo interno, confrontandosi con più autori e con le principali domande della filosofia: quelle sulla verità, sulla felicità, sulla mortalità dell’uomo, sul mondo e su Dio.

Dovendo, ora sì, occuparsi anche di storia delle idee filosofiche e di alcuni suoi importanti passaggi in poche pagine, la lettura potrebbe sembrare, in alcune sue parti, macchinosa ed ostica a chi non è “addetto ai lavori”, semplicistica e riduzionistica a chi lo è; ma il lettore cocciuto vi troverà delle splendide teorie e delle parziali risposte alle proprie domande, imparando a fare i conti con grandi personaggi come Kant, Sartre, Heidegger e Leibniz.

La parte più densa di significato è, sicuramente, il capitolo Del mondo, dunque di Dio, un commento alla domanda radicale della filosofia: «Perché esiste qualcosa anziché niente? Giacchè il niente è più semplice di qualcosa e più facile di qualcosa? » (Leibniz) o, detta in altri termini, perché l’essere e non il nulla?.

Perché interrogarsi sul mondo, inteso come universo, come “tutto”? Perché, come Cavadi ricorda nella Post-fazione, citando Feuerbach, « (…) la speculazione ha inizio quando lo sguardo si rivolge per la prima volta al cielo. I primi filosofi erano astronomi. Il cielo rammenta all’uomo il suo destino, gli rammenta che non è chiamato solo ad agire, ma anche a contemplare» (L’essenza del cristianesimo). Di conseguenza, l’interrogarsi su Dio e sulla sua esistenza, perché molte risposte del pensiero occidentale alla “domanda radicale” si basano proprio sul divino.

Tuttavia, pur considerando le sue tante risposte, la filosofia «è tanto necessaria quanto insufficiente ad orientarsi nel mondo» (pag. 121) e talvolta deve andare oltre se stessa; la terza ed ultima parte s’intitola, appunto, L’oltre della filosofia. Qui l’autore tratta della parola poetica, citando Platone, Schelling ed Heidegger; del silenzio mistico, spiegando la “dotta ignoranza” e la necessità, per il filosofo, di fermare la propria ricerca; dell’azione politica, intesa come filosofia pratica che ha il doveroso compito di reinterpretare e trasformare il mondo; della pratica amorosa, perchè il futuro (l’origine) della filosofia è «pensare appassionatamente ed appassionarsi consapevolmente» (pag. 138).

Il messaggio che permea tutto il libro di Augusto Cavadi (che si distingue anche per divertenti epigrafi ed un utile elenco di libri introduttivi e propedeutici alla filosofia) è chiaro: non vi è, non vi dovrebbe essere, distinzione tra teoresi filosofica e prassi vitale. Infatti, «se filosofare è usare la testa per capire quel poco che l’uomo può davvero capire e per astenersi dal giudizio su quel molto che gli è precluso, (…) per aprire (…) nuove vie all’autorealizzazione personale e ad un minimo di benessere collettivo», allora «la contrapposizione fra vita e filosofia è del tutto fuorviante” (pag. 60).

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