Il guerriero, l’oplita, il legionario

Il Mulino, 2008
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Per chiunque fosse interessato a conoscere i protagonisti e gli svolgimenti della guerra in età classica, o come la chiamo io della vera guerra, poiché quella di oggi con bombardamenti a tappeto e dove il genio militare e il valore non fanno più alcuna differenza non è degna di questo nome (infatti ormai si chiamano tutte missioni di pace), la lettura del libro Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico di Giovanni Brizzi dovrebbe essere una tappa di non poca importanza.

Il testo ripercorre la strada che porta alla nascita del soldato di professione romano, il legionario, partendo dai primi guerrieri greci e attraverso i processi che hanno visto l’origine, lo sviluppo e il declino della falange nel mondo mediterraneo a favore della fanteria romana con l’aiuto anche di mappe strategiche che chiariscono lo svolgimento di alcune delle più importanti battaglie dell’era classica. È in Grecia infatti che la guerra viene vista come uno dei tanti aspetti della vita quotidiana, paragonabile pertanto alla coltivazione dei campi o all’adorazione degli dei, poiché in ogni momento dell’anno poteva scoppiare una guerra e quando succedeva i guerrieri greci erano già pronti a intervenire. Come scrive Brizzi riportando un’espressione di Tucidide «i Greci consideravano la guerra come una maestra dal carattere violento che elimina il benessere dalla vita di ogni giorno» (G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Il Mulino, Bologna 2002, pag. 9). I primi eserciti ellenici però non impiegavano l’utilizzo di formazioni da battaglia ben organizzate; essi prediligevano una lotta aperta visibile e leale. Era il puro spirito guerriero e la forza del singolo a guidare gli uomini in battaglia e con ciò molto spesso l’esito dello scontro veniva deciso dalla superiorità numerica e/o dalla superiorità complessiva degli eserciti. Ma già dall’inizio, però, vi era la tendenza di utilizzare, sebbene a malincuore, stratagemmi, inganni e imboscate per sfruttare al meglio le risorse del campo di battaglia per assicurarsi la vittoria anche contro nemici di gran lunga superiori. Quindi in breve come aggiunge Brizzi «essi avevano Achille come modello, ma si comportavano spesso come Ulisse» (pag. 9).

Ma la svolta avvenne già durante la guerra di Troia dove la formazione aperta delle truppe greche guidate dall’ardore poco poteva contro le truppe ben armate e compatte dei troiani. La guerra quindi viene affidata ad un gruppo compatto di uomini che cooperano e che svolgono azioni offensive ben coordinate. In queste nuove formazioni diviene essenziale l’utilizzo della lancia a discapito della spada che diviene un mezzo per la pura difesa personale. Così nasce la falange oplitica, la più evoluta ed efficace formazione da battaglia del periodo ellenico che si afferma definitivamente già dalla metà del VII secolo a.C. e che dominerà i campi di battaglia del mediterraneo fino all’avvento della potenza romana. Come spiega chiaramente Brizzi «all’imporsi di questa rivoluzione tattica contribuisce l’adozione non tanto del grande scudo argivo, l’hóplon, cui, pure, l’oplita deve il suo nome; quanto del suo sistema di impugnatura a duplice supporto, formato dal pórpax, l’imbracatura, e dall’antilabé, la presa. Grazie a questa innovazione, insieme con l’arma mutano anche la condotta del soldato e la concezione stessa della guerra. Più maneggevole ed efficace dello strumento che lo ha preceduto, l’hóplon contribuisce infatti a coprire, oltre a colui che lo porta, anche il commilitone schierato alla sua sinistra» (pag. 15). Ciò sta a significare, in breve, che ogni singolo uomo è fondamentale per la sopravvivenza del compagno e di conseguenza per la compattezza e l’efficacia dello schieramento.

Ma la più alta e efficace forma di questo schieramento è senza dubbio quella plasmata da Filippo il macedone. Con la sua falange macedone esso riuscì ad assoggettare le polis greche e con lo stesso schieramento suo figlio Alessandro riuscì a spingersi fino in India costruendo un impero immenso. Anche qui la spiegazione di Brizzi è più che esauriente nel riportare le modifiche apportate da Filippo alla già efficace falange greca, spiegando che tramite tali modifiche «aumenta pertanto la densità e, più ancora, la profondità delle file, accrescendo il peso e la resistenza della formazione; ma soprattutto fornisce ai suoi pezhetaìroi, ai “Compagni a piedi” della falange, la sarissa, una picca lunga, secondo Teofrasto, 12 cubiti, oltre 5 metri» (pag. 22). Quindi una lancia più lunga e un numero di soldati maggiore rispetto alla falange oplitica. Ciò garantiva non solo una forza d’impatto offensiva e difensiva maggiore ma anche una maggiore difesa nei confronti di frecce e giavellotti che, a causa della più alta densità di uomini che comportava un numero più alto di lance alzate, venivano deviati o privati di parte della loro forza.

Ma com’è possibile che una così efficace struttura militare non riuscì più, nei secoli a venire, ad essere all’altezza delle legioni romane? L’opera di Brizzi è molto chiara su questo punto. Nel libro egli afferma più volte che è molto difficile stabilire quale dei due schieramenti sia più efficace dell’altro. Senza dubbio le legioni romane possedevano una preparazione e una disciplina superiore a qualsiasi esercito visto fino ad allora sui campi di battaglia; d’altro canto la formazione a falange garantiva una maggiore protezione. Le cose si complicano nel puntualizzare che se quest’ultima era del tutto inefficace in zone impervie come le zone appenniniche della penisola italiana o in generale le zone montane, dove invece la maggiore mobilità e velocità delle truppe romane aveva la meglio, nelle grandi pianure nord africane sotto il controllo di Cartagine (infatti i cartaginesi usano ancora la falange nelle loro file) la situazione era ben diversa.

È proprio lo scontro fra Roma e Cartagine a stabilire quale dei due schieramenti sia il migliore e soprattutto in due grandi battaglie storiche entrambe ben spiegate e inoltre ben illustrate, grazie all’utilizzo di mappe strategiche, dal testo di Brizzi: la battaglia di Canne, vinta dal cartaginese Annibale a discapito dei consoli romani Lucio Emilio Paolo e Caio Terenzio Marrone, e la battaglia di Zama, vinta stavolta dal famoso generale romano Publio Cornelio Scipione a discapito di Annibale, che sancisce la definitiva sconfitta del condottiero cartaginese. I due scontri sono un esempio di pura genialità militare, ottimamente descritti con meticolosità e chiarezza dall’autore che riesce a far vedere le varie sequenze dello svolgimento delle battaglie che per ovvi motivi di spazio evito di riportare (le descrizioni degli scontri sono riportate rispettivamente nelle pagg. 70-73 e 83-91).

Il libro continua a descrivere l’evoluzione dell’esercito romano fino all’età di Traiano, cioè, fino alla massima espansione dell’impero con la conquista del territorio bretone e quello dell’Asia minore, conquiste ottenute solo grazie ad un ulteriore evoluzione dell’esercito romano ormai diventato imbattibile grazie alla formazione delle coorti, formate da fanteria pesante che oltre a possedere il classico scudo rettangolare e il gladio (spada corta di origine spagnola) possedeva anche il pilum, un giavellotto con punta di ferro e corpo in legno già in dotazione alle truppe di Cesare ma ulteriormente perfezionato ai tempi di Traiano e quindi reso più pesante per migliorare gittata e penetrazione. Inoltre il pilum fu reso ancora più efficace dal fatto che dopo all’impatto la punta si rompesse rendendo l’arma inutilizzabile dal nemico (veramente stupefacenti questi romani, se permettete un commento personale).

Questo e molto altro ancora nel libro di G. Brizzi che, devo ammettere, mi ha lasciato molto soddisfatto e con una serie di informazioni che difficilmente si trovano nei documentari in televisione. Ma l’uomo è anche critico e devo evidenziare anche alcuni difetti come l’ingiustificata mancanza delle strategie militari di Giulio Cesare (appena accennato) e della sua grande capacità di ingegneria militare che trova nell’assedio della città gallica di Alesia la sua più alta applicazione; ma è da notare anche l’assenza di Gneo Pompeo, altro grande generale romano, l’unico ad aver sconfitto Cesare in una battaglia nel periodo della guerra civile nella penisola balcanica e che a mio avviso avrebbe potuto essere un evento degno di nota. Malgrado ciò la lettura di questo libro è veramente esaltante e illuminante e si passa volentieri sopra alle mie modeste critiche.

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