Il tunnel dell’io

Raffaello Cortina, Milano, 2010
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Thomas Metzinger è senza dubbio uno dei più autorevoli rappresentanti della filosofia della mente tedesca contemporanea. Le sue tesi sono originali e hanno come punto di partenza le caratteristiche della coscienza più peculiari, così come esse si presentano a noi. Egli riconosce alla coscienza un ruolo centrale nella gestione del comportamento degli organismi viventi, e anzi si dichiara convinto che solo considerando con la dovuta attenzione la ricchezza e la profondità delle manifestazioni coscienti, senza preconcetti e timori di sorta, è possibile arrivare a comprendere la reale natura di questa facoltà1.

Mi propongo di prendere qui in esame nelle sue linee essenziali la teoria della coscienza di Metzinger sottolineandone alcuni punti qualificanti rispetto ad altre posizioni che caratterizzano l’attuale dibattito sulla mente. Nello stesso tempo non potrò evitare di portare alla luce i limiti della teoria stessa, mostrando come essa, in definitiva, poggi su un utilizzo eccessivamente disinvolto di termini e concetti la cui collocazione all’interno della visione scientifica del mondo è da considerarsi problematica, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze.

Non mi occuperò, invece, delle considerazioni di natura etica che l’autore sviluppa abbondantemente negli ultimi tre capitoli del libro. Trovo infatti che tali considerazioni, anche se presentate come una conseguenza della possibilità di realizzare un sistema artificiale dotato di esperienze coscienti (una “macchina dell’io”), abbiano in realtà la funzione di rafforzare la plausibilità della proposta teorica complessiva elaborata da Metzinger, attraverso percorsi argomentativi che, in alcuni punti, tendono a dimenticare i numerosi problemi ancora aperti, assumendo forme quasi trionfalistiche.

La concezione della coscienza di Metzinger ha come immediati precursori Antonio Damasio e Bernard Baars. Questi autori, sia pur da prospettive diverse, avevano già messo in evidenza il ruolo insostituibile della coscienza nel rendere disponibile all’organismo le informazioni in una forma globale e fortemente unitaria2. Metzinger si spinge ancora oltre. Nella sua proposta i contenuti della coscienza, e lo stesso Io che ognuno di noi percepisce – o, meglio, vive – come centro del proprio essere, non sarebbero altro che rappresentazioni che il nostro cervello costruisce, istante per istante, per facilitare l’interazione dell’organismo con l’ambiente3. L’esperienza soggettiva andrebbe pertanto vista come un modo molto specifico di organizzare l’informazione relativa al mondo esterno, sotto forma di una “conoscenza dell’Io”: una conoscenza in prima persona4.

Una condizione indispensabile affinché una simile rappresentazione abbia luogo è la non consapevolezza da parte del soggetto del processo mediante il quale essa viene ottenuta. Su questo punto Metzinger insiste molto. In effetti, esso è un po’ il cardine dell’intera teoria da lui proposta: per costituirsi sotto forma di esperienza cosciente di qualcuno, per poter avere un centro, identificabile come Io, la rappresentazione deve rendersi disponibile al soggetto come realtà del mondo e non come una immagine costruita a partire da tale realtà. Metzinger ha coniato il termine di tunnel dell’io per indicare che il modello della coscienza è trasparente a se stesso, intendendo con questo che il soggetto non è consapevole delle modalità con cui l’informazione viene elaborata per assumere le forme con cui essa gli si presenta5. Anzi, lo stesso soggetto va considerato una rappresentazione che, a sua volta, non sa di esserlo6.

Secondo questa concezione, la rappresentazione della realtà come esperienza cosciente e l’immagine che il “sistema” coinvolto ha di se stesso non sarebbero altro che costruzioni elaborate dal cervello, al fine di permettere all’organismo di cogliere se stesso come un’entità fortemente integrata, facilitando così la pianificazione e il controllo delle azioni poste in atto7. Il presupposto che sottostà a una simile concezione è che un cervello divenuto estremamente complesso avrebbe difficoltà a gestire al meglio le proprie funzioni senza far riferimento a una immagine complessiva che comprenda sia le informazioni disponibili a un dato istante, che le attività da intraprendere o in corso di svolgimento. Sulla sostenibilità di tale presupposto e soprattutto dell’idea che una rappresentazione possa accrescere in qualche modo l’efficienza di un sistema qualsiasi dirò tra poco, anticipando soltanto che si tratta di una tesi basata su una sorta di abbaglio a livello concettuale, anche se non facilmente riconoscibile come tale.

Mi sembra però opportuno far precedere la mia critica da una considerazione degli aspetti positivi della proposta di Metzinger, che portano alla nostra attenzione aspetti e implicazioni della coscienza ordinariamente sottovalutati o del tutto ignorati. Egli mostra infatti di prendere sul serio la coscienza, evidenziandone alcune caratteristiche importanti, come il suo essere in relazione a comportamenti meno stereotipati e più creativi8; la sua attitudine a presentare i propri contenuti come esperienze di qualcuno, favorendo in tal modo l’integrazione dei diversi tipi di informazione disponibili a un determinato istante9; il suo carattere selettivo, vale a dire il suo essere rivolta ai soli aspetti del reale che sono rilevanti ai fini di una eventuale azione da intraprendere10. A proposito di quest’ultima caratteristica, aggiungerei che non solo l’attenzione cosciente prende in considerazione esclusivamente gli elementi maggiormente significativi dal punto di vista comportamentale, ma tende anche a presentarli nella forma più adatta per essere utilizzata nel comportamento, riducendo al minimo la necessità di ulteriori elaborazioni a livello cosciente. Ad esempio, i rumori e i suoni ci giungono già collocati nella fonte che li emette, e non nell’orecchio dove essi vengono effettivamente rilevati; anche gli oggetti visivi ci si presentano già collocati nel mondo esterno, e per giunta nel loro corretto verso. È infatti noto che l’immagine proiettata sulla retina risulta capovolta rispetto alla realtà. Si tratta, com’è facile rendersi conto, di meccanismi che, riducendo l’impegno della coscienza su operazioni ripetitive e comunque eseguibili in maniera automatica, rendono questa disponibile per attività più impegnative, connesse in genere a una maggiore plasticità comportamentale.

È quindi evidente che la coscienza svolga un ruolo adattativo di primo piano nell’ambito del comportamento degli organismi viventi. Questo riconoscimento di Metzinger rappresenta – a mio avviso – uno dei principali punti di forza della sua concezione. Laddove molti autori non solo non riconoscono alcuna efficacia causale alla coscienza, ma adottano la fin troppo facile (e abusata) strategia volta a risolvere i problemi posti da questa particolarissima proprietà della mente con un’operazione di sostanziale svalutazione, che può talvolta giungere agli estremi della totale negazione11. Il modello di coscienza proposto da Metzinger appare a prima vista più che plausibile perché si richiama alla nostra esperienza immediata. Ci parla di noi, di come viviamo ciò che si presenta istante per istante nel dominio della nostra soggettività, dandone una interpretazione che è sostanzialmente coerente con quanto sappiamo del nostro cervello, visto come organo deputato alla gestione del nostro comportamento.

Il tunnel dell’io è il concetto chiave di questa spiegazione: noi non siamo in grado di risalire dai processi del cervello alle esperienze coscienti, poiché i processi del cervello che creano l’esperienza soggettiva sono inaccessibili all’esperienza stessa. E anzi tale inaccessibilità è una delle condizioni basilari affinché tali esperienze prendano consistenza nella loro forma caratteristica. Anche l’Io, ente personificato a cui tutto viene riferito, rappresenta un prodotto del cervello – un’immagine virtuale priva di consistenza nel reale – che non sa nulla della propria origine. L’Io e la coscienza sono trasparenti a se stessi, e tale trasparenza permette loro di costituirsi come fattori capaci di contribuire all’adattamento degli organismi all’ambiente.

Senonché Metzinger non ci dice nulla sul principale problema relativo al rapporto tra mente e cervello: non affronta la questione cruciale di come sia possibile un’esperienza cosciente, vissuta in prima persona, originata da fenomeni fisici impersonali come sono quelli che avvengono a livello nervoso. Egli si concentra piuttosto nello sforzo di spiegare perché l’esperienza cosciente e l’Io si presentino come altra cosa rispetto all’attività cerebrale da cui derivano. Nel farlo, tuttavia, incorre in un vero e proprio errore a livello concettuale, mettendo indebitamente insieme fenomeni fisici (l’attività nervosa del cervello) con altri fenomeni e proprietà tipicamente “mentali”, che è molto difficile ricondurre completamente al precedente ambito di fenomeni.

Per comprendere fino in fondo quanto sia discutibile l’operazione tentata dal filosofo tedesco, proviamo a calarci nella sua proposta, assumendo però come riferimento non la nostra esperienza cosciente – i vissuti soggettivi – bensì l’organizzazione nervosa del cervello o anche l’organizzazione di un elaboratore d’informazione. Sono infatti questi i “sistemi” con cui dobbiamo confrontarci se vogliamo muoverci in un contesto autenticamente “naturalistico”. Come inquadrare all’interno di simili sistemi un concetto come quello di trasparenza? Come potrebbe essere realizzata (o semplicemente immaginata, pensata) la trasparenza in un sistema che agisca in maniera del tutto impersonale sulla base di leggi scientifiche definite? In una simile prospettiva, la trasparenza non può che presentarsi sotto una qualche forma di inaccessibilità: inaccessibilità di specifici contenuti informativi al sistema o, magari, a una parte di esso. Secondo tale concezione, il cervello – ma anche un computer opportunamente programmato – genererebbe un’immagine di se stesso e della propria attività, e questa immagine non avrebbe accesso alle informazioni riguardanti il proprio costituirsi. Cosa potrebbe significare ciò in termini funzionali? Come dobbiamo rappresentarci l’idea di una immagine che “ignora” i processi che l’hanno portata ad assumere la sua forma attuale? Anzi: è concepibile un’immagine capace di sviluppare una qualche rappresentazione di sé?

Domandiamoci, per prima cosa, di quale natura potrebbe essere un’immagine prodotta da un sistema artificiale, o da un cervello, il cui funzionamento si basi rigorosamente sullo scambio di segnali elettrici (o elettro-chimici) tra le unità che lo costituiscono. Malgrado i nostri sforzi, è difficile che riusciamo a rappresentarcela in maniera diversa da una delle seguenti forme: visiva, un insieme di lampadine o di led che si accendono e si spengono secondo particolari sequenze o configurazioni spaziali, segni impressi su un supporto qualsiasi, oppure grafici di un qualche tipo, che compaiono su un monitor; segnali sonori, anch’essi prodotti secondo una qualche logica di tradurre l’informazione; oppure mappe di dati, conservate nella memoria del sistema. Ma, a ben guardare, si tratterebbe di un’inutile complicazione. Queste immagini, per poter essere utilizzate, dovrebbero in ogni caso venir interpretate (decodificate) dallo stesso sistema (il cervello o l’elaboratore) che in precedenza le aveva costruite in quella forma. Dov’è quindi il vantaggio nei confronti del comportamento? Quali informazioni aggiungerebbe l’immagine costruita dal sistema (o da una parte di esso) che già non fossero a disposizione del sistema stesso? In definitiva: perché il sistema (biologico o artificiale) non potrebbe controllare le diverse funzioni, cognitive e motorie, in maniera completamente meccanica e impersonale, utilizzando l’intero bagaglio di informazioni in suo possesso, come fanno – senza eccezione – tutte le macchine finora costruite dall’uomo?

Da un punto prettamente informazionale, affermare – come fa Metzinger (ma anche Damasio e Baars) – che riunire tutte le informazioni significative in un unico luogo virtuale è vantaggioso ai fini delle azioni da intraprendere, vuol dire riconoscere all’informazione così organizzata un contenuto maggiore rispetto alla stessa informazione quando si trova disseminata in varie zone del sistema medesimo. Ma chi (o che cosa) organizza l’informazione sotto questa forma, se non lo stesso sistema? Siccome l’informazione non può essere creata dal nulla e qualsiasi trasformazione di essa da una forma all’altra abbisogna di ulteriori informazioni, siamo costretti a concludere che l’apparente aumento del contenuto informativo non può che corrispondere esattamente alle informazioni utilizzate dal sistema per selezionare e organizzare in maniera particolare le informazioni rilevanti ai fini di una determinata azione.

Ecco che diviene ancor più pressante la domanda: perché il sistema non potrebbe operare in maniera completamente automatica, sulla base di tutte le informazioni di cui dispone? A tale domanda non c’è risposta all’interno della concezione della coscienza elaborata da Metzinger. In realtà, egli, ricorrendo al concetto di trasparenza (implicito in quello di “tunnel dell’io”), si limita a presupporre (o, meglio, a postulare) l’esistenza di una coscienza, più che spiegarla. Infatti, il concetto filosofico di trasparenza, a ben guardare, è costruito prendendo come riferimento le caratteristiche del nostro pensiero, e in particolare quella di riflettere su se stesso, di essere cosciente. Se eliminiamo la capacità di auto-riflessione – capacità squisitamente mentale – viene meno anche la coscienza: la trasparenza allora non può che tradursi in una assai più modesta incapacità di accesso a certe informazioni. Ma, come abbiamo visto, l’inaccessibilità così concepita diviene un puro non senso se applicata a sistemi che operano in base ai principi fisici ordinari.

Vediamo quindi che il modello della coscienza imperniato sul “tunnel dell’io” non è in grado di dirci nulla di rilevante sul sorgere della coscienza. Anzi, esso dà per scontata l’esistenza della coscienza nel momento in cui introduce come elementi non problematici le rappresentazioni del cervello nella forma dell’esperienza soggettiva; lo stesso avviene quando utilizza il concetto di trasparenza per giustificare la nostra incapacità di ripercorrere i diversi passaggi che portano dai processi nervosi del cervello ai nostri vissuti soggettivi. La trasparenza non può realizzarsi al di fuori di un contesto in cui non sia potenzialmente presente una qualche capacità cosciente.

Questo equivoco di fondo è un po’ il prezzo che Metzinger deve pagare per rendere, almeno in apparenza, la sua prospettiva teorica compatibile con la concezione scientifica del mondo. Si tratta, del resto, di una strategia esplicativa molto più comune di quel che si potrebbe credere: sembrerebbe anzi che non si possa fare a meno di ricorrere a un qualche tipo di espediente a livello concettuale ogni volta che si affrontano i problemi della relazione mente-cervello all’interno delle categorie consolidate della scienza. Gli espedienti possono essere più o meno sofisticati, più o meno difficili da identificare come tali, ma essi hanno invariabilmente la funzione di distogliere la nostra attenzione dagli aspetti più ostici da affrontare o di trasformare detti aspetti sotto forme apparentemente non problematiche e a prima vista accettabili12.

Non è tuttavia con questo genere di artifici che possiamo sperare di aver ragione degli attuali problemi posti dalla mente. È vero che, al momento, nessuno è in grado di suggerire soluzioni che siano davvero soddisfacenti, ma possiamo almeno darci da fare affinché queste strategie ingannevoli vengano smascherate per quel che sono, in modo che un numero sempre minore di persone perda tempo con esse.

4 responses to “Il tunnel dell’io

  1. Vorrei suggerire un approccio molto interessante sebbene non di tipo prettamente scientifico, filosofico-religioso. tuttavia tale approccio ha dei forti punti in comune con quanto esposto di sopra. Vedasi la filosofia dell’Advaita vedanta. Di seguito provo a riassumerla brevemente.
    C’è un unica sostanza, lo spirito eterno, diciamo per semplicità Dio. Questo spirito eternamente “è”, c’è solo lui, ma proprio per questo non si autopercepisce, non può fare alcuna esperienza. Come un grosso sole che riluce di se stesso senza esserne conscio. Per percepirsi infatti bisogna essere almeno in due, c’è bisogno di un soggetto che vede un oggetto. Allora Dio, lo spirito si organizza in mille forme viventi, dotate di sensi tra le quali l’uomo.
    Perchè lo fa? Per potersi percepire, conoscersi e fare esperienza di se, proprio tramite i sensi di queste forme viventi. Un esempio: l’uomo mentre vive in un ambiente diversificato, vede, sente, tocca; il cane che a sua volta fa lo stesso con l’uomo, così vale per la capra, che esperisce la rondine ecc. Questa interazione continua, in realtà nessuno veramente percepisce o esperisce alcunchè, anzi è tutta un’illusione perché alla fin fine è lo spirito soltanto che vede se stesso tramite le forme viventi che ha creato. Compreso? Spero di si!
    Adesso però viene il bello. In tutto questo gioco apparente, si genera un grave inconveniente. Le forme interagiscono e si prendono sul serio, dimenticandosi di essere solo oggetti nelle mani dello spirito, si credono indipendenti ed autonome. In particolare l’uomo si crede indipendente e a se stante, si sente separato e per questo minacciato. Per questo motivo soffre. Per uscire da questa condizione (dovuta ad una erronea interpretazione) egli si pone degli scopi, lotta per obiettivi propri e soffre nella vita per ciò che non gli va bene. Ma questa lotta non fa altro che peggiorare le cose, perchè parte dal presupposto di un essere separato. L’Advaita afferma che per smettere di soffrire si debba uscire dall’illusione di essere soggetti a sé stanti, riconoscere che non siamo neanche i veri fruitori di ciò che i nostri sensi inviano, anzi non esiste alcun soggetto che faccia esperienza alcuna. Si deve semmai riconoscere la verità e la realtà di un unico spirito. Nel momento in cui ci si renderà conto di essere solo una forma apparente che lo spirito si è data, scomparirà la soggettività e la sofferenza individuale che a lei si lega. Questa è la vera illuminazione dell’individuo, capire che non esiste. Una volta compreso che l’uomo è in realtà spirito eterno, l’essere umano tornerà al vero Se. Con tale ritorno ogni sofferenza cessa in quanto non appartiene a nessuno, non è mai esistito nessun individuo separato ma solo lo spirito eterno, l’unica Coscienza. In questo senso veramente nessuno nasce e nessuno muore.
    Spero che questo contributo possa essere utile.

    In ogni caso invio in caro saluto.

  2. Sinceramente, non vedo alcun punto di contatto tra la mia critica alla teoria della coscienza di Metzinger e la concezione esposta da Vestrini.
    Essendoni interesssato in passato anche di filosofie orientali, tale concezione non mi lascia del tutto indifferente. Tuttavia, per parlare della mente, ho da tempo scelto una maggiore aderenza alla scienza, anche se ciò mi costa non di rado una notevole fatica. Anzi, voglio dirla ancora più brutalmente: considero la metodologia scientifica e la visione naturalistica del mondo fatta propria dalla filosofia contemporanea, decisamente troppo strette per giungere a una spiegazione soddisfacente di fenomeni come la coscienza e la libertà umana.
    Di qui ad affermare che la base di tutto c’è lo Spirito, però ce ne corre. Anche perché non esiste alcun modo per mettere alla prova certe affermazioni. La scienza, invece, malgrado i suoi limiti, è in grado di avanzare, poiché chiede di mettere alla prova – alla prova dei fatti – la validità delle sue affermazioni. E ciò la distingue nettamente da sistemi conoscitivi come le religioni e le filosofie.
    Può darsi che un giorno si debba ripiegare su posizioni chiaramente dualistiche per render conto delle peculiari caratteristiche della mente. Ma, finché non ci saranno fatti, empiricamente rilevanti, che giustifichino un simile approdo, preferisco continuare a credere che la mente possa avere una spiegazione all’interno del metodo scientifico, sia pur un metodo scientifico profondamente diverso da come lo concepiamo oggi.

  3. Secondo me il punto di contatto comune all’Advaita e Metzinger, consiste nel prendere in esame, il prodursi di un immagine/senazione finale del processo cognitivo, ed il chiedersi come e perchè in base a questa si produca un’esperienza soggettiva. L’Advaita sostiene che esista un fruitore di tale esperienza soggettiva, che non coincide col cervello, ma con un quid impersonale e comune a tutti gli esseri. Non si tratta banalmente del solito dualismo, spirito (A) che percepisce la materia (B). Anzi tale quid è immanente,adimensionale, non misurabile o definibile, eppure costantemente presente. Mi rendo conto della non dimostrabilità di questa posizione, quindi per voi scienziati tutto il discorso perde di valore da un punto di vista del dibattito scientifico.
    Ma se interrogate uno Jnani,che di solito è un eremita semianalfabeta, vi chiederà: Chi eravate 20 mesi prima di nascere? e lui stesso risponderà:
    Quel quid, quel nulla assoluto, che con il sorgere della vita di singolo individuo ha cominciato a farne esperienza. E’ lì, in quel punto adimensionale che si genera l’esperienza soggettiva, è lui il fruitore, non il cervello. Non ha senso che il cervello invii a se stesso un elaborazione riassuntiva dei dati che egli stesso processa quindi già in suo possesso.

    Saluti.

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