La catastrofe nel pensiero occidentale

Il Saggiatore 2012 (E-book)
Leave a comment

La catastrofe è la guerra, in tutte le sue forme, purché vi sia qualche residuo di umanità che stia a guardare. La catastrofe in filosofia è la competizione. Eppure da bandi, concorsi e roba affine talvolta nasce qualcosa di buono. Si pensi ai Discorsi di Rousseau. O si pensi alle Operette morali. Queste ultime non hanno vinto il concorso bandito dalla Crusca. Dal liceo ci insegnano che ad esse fu preferita la Storia d’Italia di Carlo Botta. Gli studenti già dovrebbero capire l’andazzo: quando in Italia c’è un concorso, si badi piuttosto a chi non vince.

L’anno scorso, la casa editrice Il Saggiatore bandì un premio per saggisti al di sotto dei quarant’anni. Attirato dall’eventuale vincita pecuniaria, partecipai anch’io alla competizione, al contest online, come lo chiamavano. Competizione e soldi potranno mai andare d’accordo con la filosofia?

Ad ogni modo, è con molto piacere che mi trovo a scrivere sul saggio vincitore del concorso. Il tema, come titola adesso anche l’e-book, era La catastrofe nel pensiero occidentale.

Prima i nodi da sciogliere, e sono due su tutti. Il primo: l’autrice, Maria Francesca Moroni, sembra indecisa se compiere una serrata analisi filosofica del concetto di catastrofe oppure tracciarne una breve storia filosofica. Lo spazio a disposizione era davvero poco (centomila caratteri spazi inclusi, da bando); forse per questo si ha la sensazione che il saggio, nel complesso, rimanga sospeso a metà, tra accenni storici e brevissimi tentativi di disamina filosofica. Tuttavia, propendere esclusivamente per una delle due possibilità avrebbe forse giovato al testo, in quanto avrebbe permesso di andare fino in fondo almeno in una direzione.

Il secondo (ed entriamo subito nel merito): nel primo rigo, Moroni si chiede: «Catastrofe naturale? Catastrofe industriale o tecnologica? Catastrofe morale?» (§ 1). La distinzione, a tutta prima, sembra più che legittima. Ma viene da chiedersi se ci si sia interrogati a fondo su cosa sia la natura. Davvero si dà qualcosa che non sia naturale? E di quale natura stiamo parlando? La soluzione sembra esserci offerta dalla stessa autrice a partire dalla catastrofe “morale” dell’olocausto e di quella “tecnologica” di Fukushima. In particolare, di quest’ultima si dice che «fonde i tre tipi di catastrofe in una sorta di chimica esplosiva i cui due agenti pregnanti sono la naturalizzazione del male estremo – teorizzata da Hannah Arendt nel suo studio sull’Olocausto e da Günther Anders nelle sue riflessioni sull’utilizzo di bombe atomiche e a idrogeno dopo Hiroshima e Nagasaki – e l’umanizzazione causale della catastrofe» (§ 2). A partire da queste considerazioni, ci si chiede se l’uomo «più che scardinare ancora qualcosa riuscirà a fondere nuovamente i poli di natura, scienza e tecnica e morale, nell’ottica di un rinnovato ripensamento del rapporto dell’uomo con la natura, intesa questa volta né come vittima, né come matrigna, ma come vita, come casa, come madre e sorella, come amore?» (§ 2). Dalla natura non si esce, sembra suggerire questo passo. E non si può che essere d’accordo. Anche qua, però, l’autrice sembra solo accennare questa possibilità e non essere audace fino in fondo. Senza contare il fatto che pare eccessivamente idilliaca la figura di una natura vista come “vita, casa, madre, sorella — amore”. Qual è questa natura che ci accoglie così a braccia aperte? La natura intesa in che senso? Oppure parliamo dell’abominevole e contraddittoria natura umana? Certamente non è la natura spinoziana; men che mai la natura leopardiana (pure presa in considerazione da Moroni riguardo al celebre Dialogo della Natura e di un Islandese; dopo questo dialogo, come si può considerare la natura come “amore”?). Forse, inconfessatamente, v’è un sostrato romanticheggiante in quest’idea così idilliaca di natura.

A dirla tutta, si ha la sensazione che resti indeterminata pure una definizione univoca di “catastrofe”. L’autrice, d’altronde, non ha tutti i torti. Il termine è utilizzato per tante cose così diverse tra di loro che risulta davvero difficile utilizzarlo in maniera strettamente univoca e darne una definizione che vada bene per tutti i casi. Così per “catastrofe” si può intendere un evento disastroso che coinvolga migliaia o milioni di persone; oppure solamente aspetti negativi di una vita individuale, nell’amore, in famiglia, nel gioco (cfr. §1). Non sfugge all’autrice che la catastrofe esercita anche un fascino sottile (in fondo, poi, è questo momento di godimento che agisce nel sublime kantiano: «Ecco che allora il sublime è la catastrofe che fa scorgere il suo fondo che come un buco nero attira verso di sé tutto ciò che lo circonda, proiettandolo in un mondo diverso e nuovo per effetto di una combustione energetica, folle e sovversiva», § 6). Forse la definizione più chiara che ci viene fornita è questa: «La catastrofe è l’inaspettato, l’imprevisto, è l’abisso, è il fondo selvaggio della natura che chiama l’uomo, lo tenta e lo ammonisce insieme per riaffermare la sua predominanza» (§ 1).
La predominanza della natura sull’uomo ha un nome segreto, che sfugge al solo pronunciarlo. La natura intesa come vita-madre-sorella-amore sembra ai miei occhi – mi duole dirlo – un velo pietoso con cui copriamo il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera. Dalla natura non si esce, lo abbiamo ormai concordato. Proprio per questo ogni accorgimento morale, tecnologico o altro che sia può condurre alla catastrofe. E ogni stratagemma con cui vogliamo sottrarci alla natura non può in ogni caso impedirle di predominare. Perché la natura è la morte. Dalla natura non si esce perché non si può non morire.

Detto questo, risulta evidente che non posso concordare con la visione secondo cui «il concetto di catastrofe ha bisogno del concetto di vita, ma non è il suo contrario, il suo speculare. La catastrofe non è la morte, bensì è un qualcosa che si pone fra la vita e la morte, è un qualcosa che nelle sue diverse accezioni scardina il ciclo naturale della vita alterandolo in un modo che, a sua volta e in maniera diversa, può essere connotato come naturale, come un qualcosa che s’impara ad accettare» (§ 1). La catastrofe non è la morte… Forse sarebbe meglio dire: la catastrofe non è la propria morte. Quando avviene una catastrofe, a morire sono sempre gli altri. Ma gli altri ci muoiono attorno, continuamente. L’esistenza è una continua catastrofe. Fino a quando saremo noi catastrofe per qualcun altro. Solo morendo si impara ad accettare la natura.

Eppure è Moroni stessa a fornirci tutti gli indizi a riguardo. A un certo punto compie una breve quanto bella incursione etimologica circa il termine “catastrofe”, svelandoci che «strophé è la parola greca passata ai latini che sta per strofa, ovvero per ciò che oggi indica un insieme di più versi formante un sistema metrico, regolato o libero, nella poesia lirica o nella canzone. Questo concetto si origina nella lirica greca, e deriva letteralmente da strépho, volgo, volgersi, in quanto gli antichi quando cantavano inni innanzi agli dèi solevano volgersi a destra e a sinistra, imitando così il movimento dei cieli da Oriente a Occidente e quello inverso degli astri, secondo le loro credenze. Kàta sta per giù, sotto, attraverso questa parola si dà un’indicazione spaziale che può assumere delle connotazioni non positive. La catastrofe diviene letteralmente un volgersi lirico verso ciò che sta in basso, verso la fine, il fondo e/o l’abisso» (§ 1). Quando gli antichi rivolgevano inni verso il basso, è evidente che li indirizzavano alle divinità ctonie del regno dei morti. Parlare della catastrofe è dedicare odi alla morte, comporre epitaffi per la natura che perennemente distrugge. Da questo punto di vista, l’elegia con la quale si guarda romanticamente alla natura deve intendersi tutta in senso novalisiano. Si guarda la tomba dell’amata e nei suoi occhi si vede posare l’eternità. Parlare della catastrofe significare innalzare inni alla notte infera.

Tale breve scavo etimologico ci proietta dritti nella questione del linguaggio. A seconda di dove ci volgiamo quando parliamo, si possono dare catabasi e anabasi, discesa all’Ade e resurrezione. Tuttavia, il problema del linguaggio sfiora la catastrofe quando entra in gioco la comunicazione. Se non ci fosse la grande varietà linguistica, non solo tra lingue completamente diverse o tra persone diverse, ma anche nello stesso individuo; se non ci fosse questa impossibilità di esprimere il pensiero univocamente e senza possibilità di fraintendimenti di sorta, allora si potrebbe dare identità di pensiero, essere e linguaggio. Invece, «dopo l’episodio biblico della Torre di Babele gli uomini non riescono più a parlare la stessa lingua, hanno difficoltà a comprendersi, le distanze tra loro aumentano e si rafforzano innalzando un muro di incomunicabilità. La testa degli uomini è piena di pensieri che non si riescono pienamente a comunicare, di pregnanze che si condensano, non si può più rispettare l’antica equazione: pensiero = linguaggio = essere. Tuttavia la catastrofe non è questa rottura dell’equazione, in quanto la rottura è vita, è ritmo, e il riconoscimento del suo valore caratterizza ampia parte della filosofia contemporanea. La catastrofe è piuttosto l’afasia, il vuoto tra una parola e l’altra, il sussulto e l’incapacità di completare una frase, lo stallo e l’interruzione del ritmo; è lo spazio bianco che si trova su una pagina. La catastrofe linguistica ha un che di poetico e patetico insieme, struggente e imbarazzante, divertente e doloroso» (§ 4). Questo, bisogna riconoscerlo, è uno tra i passi più belli e interessanti del saggio. La catastrofe linguistica così intesa, come insieme di poetico e patetico, struggente e imbarazzante, divertente e doloroso, non fa che mostrare il vero volto della catastrofe tout court. Se la catastrofe è lo stallo, l’afasia, il vuoto, la pagina bianca, tutto ciò significa che la catastrofe è l’immobilità dell’essere parmenideo, della pagina bianca sulla storia che Hegel identifica con la felicità, del momento in cui – giusta la lezione di Jünger – il direttore d’orchestra solleva la bacchetta e i musicisti trattengono il fiato per cominciare. La catastrofe non è che un altro nome della realtà ferma e immutabile; non è che un altro nome — della perfezione. Non quando si parla, non quando si comunica si ha l’equazione pensiero=linguaggio=essere; bensì nell’attimo in cui tutto viene sospeso e tutto è una cosa sola, cioè nulla.

Del resto, Moroni ce lo dice alla fine di questo saggio per certi versi irrisolto, ma non privo di un certo fascino e di una certa erudizione. L’amore assoluto (ma la natura è questo “amore”) di due amanti conduce inevitabilmente alla rinuncia a sé che potrebbe sconfinare in un delitto. Tale delitto «si andrebbe a scrivere sulla pelle, a scavare nella carne, perché la catastrofe, ogni tipo di catastrofe vissuta andrà mappata a sangue sulla propria pelle, come traccia indelebile» (§ 6). Le cose stanno esattamente così: nella confusione dell’io, nella perdita di ogni traccia di memoria, come nel film di Christopher Nolan, è sulla propria pelle che si deve incidere quanto ognora ci mostra la natura; è su ogni piega del corpo che ogni autore del delitto deve tracciare a caratteri indelebili il proprio memento mori.

***

Postilla critica. A un certo punto del testo (siamo nel §2), a proposito della perdita del fondamento e dello smarrimento della concezione di un dio su cui fondare l’etica e l’humanitas tutta, si legge: «Questo tipo di approccio è stato ripreso in questi anni da Alain De Botton nel suo libro Del buon uso della religione. Una guida per i non credenti del 2011, anticipato nell’articolo “Una religione per gli atei. L’importanza di ritrovare la nostra umanità perduta”. Qui lo studioso, appurando nelle premesse le esigenze e i bisogni dell’uomo, che dai suoi primi passi cerca instancabilmente un confronto con il divino, e prendendo ad esempio la Religione dell’Umanità adottata in Francia durante i primi giorni della Rivoluzione francese, riprende l’idea di una nuova religione laica in grado di riempire i vuoti lasciati dall’ideologia liberale – di chiara matrice illuministica – che non si è mai preoccupata né di offrire contenuti adatti ad affrontare il mare della vita, né di contestualizzare l’uomo nel mondo e fra i suoi simili». Come il popolo della rivoluzione francese si svincolò dai vari Luigi per brancolare nel Terrore e poi cadere nelle leste manine napoleoniche, così De Botton suggerisce di svincolarci da una religione per lasciarci avvinghiare da un’altra. Religione per religione, tanto vale tenersi quella che c’è, manco per fare lo sforzo di cambiare tutto e poi ritrovarsi a non ricevere più regalini a Natale. Se liberazione dev’essere, che sia quanto maggiore possibile. Rinunciamo alla religione, liberiamoci, ma solo se non dev’essere sostituita da niente di simile. Altrimenti diventeremmo tutti dei novelli Paolo di Tarso: prima persecutori, poi zelanti apostoli della nuova fede, ma in fondo sempre uguali a noi stessi. Come certi fanatici e integralisti: è un caso che ci si ritrovi a destra o sinistra, hitleriani o stalinisti, cristiani o islamici; poi in fondo si rimane quel che si è: fanatici imbellettati, sempre pronti al massacro. Liberiamoci una volta per tutte: la religione ai religiosi, la libertà agli uomini liberi.

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.