La mente

Raffaello Cortina, 2005, 282 pp.
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Frutto di un ciclo di lezioni, il volume La Mente (Mind. A Brief Introduction, Oxford University Press, 2004; trad. it. di Carlo Nizzo, Prefaz. di Michele Di Francesco) porta anche il segno dei temi presentati da John Searle in lavori come La Riscoperta della Mente (Boringhieri, Torino, 1994) e Mente, Cervello e Intelligenza (Bompiani, Milano, 1988). Il sottotitolo, Una Breve Introduzione, potrebbe indurci a pensarlo come un manuale indirizzato unicamente a studiosi che si occupano di filosofia della mente, ma Searle è abile a rendere il testo accessibile a tutti coloro che volessero approfondire temi filosofici e scientifici. Col suo tipico acume filosofico e la sua chiarezza didascalica l’autore rivisita storicamente le tappe della filosofia della mente dal secolo scorso sino ad oggi. Michele di Francesco, curatore della prefazione del libro, nota come Searle lasci ampio spazio alla trattazione delle sue proposte teoriche; Di Francesco infatti scrive: «leggere una presentazione generale di filosofia della mente scritta da Searle è un po’ come affrontare una cronaca della Rivoluzione francese redatta da Robespierre» (pag. X).

Da subito Searle confessa ai suoi lettori di non voler offrire nessuna facile verità, anzi riconosce la presenza di questioni che restano al momento irrisolvibili. Ed è proprio questo il motivo per cui occorre essere molto abili a non farsi influenzare da conclusioni fallaci che spesso invece sono adottate come verità incontrovertibili da alcune teorie della mente. «Comprendo» scrive Searle «nel gruppo qualsiasi posizione il cui nome finisca in “ismo”» (p. 3). Più avanti Searle precisa:

«Una delle cose peggiori che si possano fare è comunicare ai lettori l’impressione di aver capito qualcosa che in realtà non capiscono, l’impressione che qualcosa sia spiegato quando in realtà non lo è stato, e che sia stato risolto un problema in realtà non risolto» (p 10).

L’idea principale è di trasferire i termini del problema mente-corpo ad un livello di maggiore semplicità e concretezza, neutralizzando già da subito le complicazioni relative al materialismo e al dualismo di stampo cartesiano. È evidente già dalle prime battute che l’accordo cercato dall’autore sembra essere tra una visione naturalistica che supporti la mente e i suoi contenuti e un’indagine scientifica, precisamente neurobiologica, di questi stessi (si badi bene che per Searle il termine “scienza” non etichetta un «genere specifico di ontologia» – p. 266 – bensì si riferisce a un insieme di metodi atti a realizzare un’indagine sistematica dei contenuti mentali).

Le probabilità di imbattersi però nel materialismo si concretizzano nel momento in cui si esamina la questione mente-corpo utilizzando un vocabolario esclusivamente tradizionale, il quale solo in apparenza riesce a specificare i contenuti dei due termini mentre in realtà contribuisce ad amplificare il divario ontologico tra fisico e mentale.

Secondo Searle infatti il problema è stato posto già ai tempi di Cartesio, il quale formulò una teoria della mente che divise il mondo in due realtà irriducibili l’una all’altra. La teoria dualistica cartesiana con la res extensa e la res cogitans non concesse alcuno spazio di coesione tra fisico e mentale, anzi li pensò unicamente come mondi intrinsecamente distinti e separati nella sostanza e nelle proprietà. Mentale e fisico sono diventati nel tempo categorie in assoluta opposizione tra loro: ciò che è mentale non può essere localizzato o esteso spazialmente, non è oggettivo, quantitativo e non possiede la benché minima proprietà causale, ciò che è inteso come fisico non è soggettivo né intenzionale né tantomeno qualitativo ed è incluso in sistemi causalmente chiusi.

Assumere come visione del mondo il dualismo cartesiano significa adottare una serie di incoerenze logiche. Immediate le argomentazioni relative: a) come spiegare la relazione causale che intercorre tra le particelle fisiche cerebrali e gli stati mentali; b) come può un qualunque stato fisico, come un movimento, dipendere causalmente da uno stato mentale; c) cosa significa dire che gli stati mentali possiedono contenuti intenzionali.

Searle dichiara con franchezza che questioni del genere possono essere risolte solo se si è disposti ad accettare il naturalismo biologico (p. 102) come mezzo attraverso il quale è possibile ricondurre gli eventi mentali ad un livello di descrizione consono al mondo naturale e spiegarli alla stregua di fenomeni quali la digestione o la secrezione enzimatica. In effetti gli stati mentali così intesi diventano parte integrante del mondo reale e permangono nella loro ontologia soggettiva lontani da eventualità eliminative o riduzioniste. I punti a) e b) (vedremo in seguito come Searle risolve il punto c)) trovano immediata soluzione: gli stati mentali naturalizzati non solo possono vantare il diritto di essere causalmente riducibili ai processi fisici del cervello ma il loro essere «caratteristiche reali del mondo reale» (p. 103) li determina come entità aventi efficacia causale sul mondo fisico. Searle, convinto di ciò, scrive:

«in primo luogo, il mentale non è che una caratteristica (a livello sistemico) della struttura fisica del cervello e, in secondo luogo, non ci sono, in termini causali, due fenomeni indipendenti quali lo sforzo cosciente e l’attivazione neuronale non cosciente. Non c’è che il sistema cerebrale, che ha un livello di descrizione, quello sistemico, in cui il sistema è cosciente» (p. 189).

Oltretutto ci si libera anche dallo spettro della sovradeterminazione causale che, individuando non una ma due ordini distinti di cause, complicherebbe di gran lunga le cose. Vediamo come procede Searle su questo punto. Egli pensa che gran parte del problema abbia origine da un fraintendimento della nozione di causalità. Secondo un modello mutuato da Hume e ampiamente utilizzato dalla tradizione scientifica, la nozione di causalità sottintende la relazione che intercorre tra eventi discreti ordinati in una successione temporale determinata: la causa deve necessariamente precedere in ordine di tempo l’effetto ed entrambi devono trovarsi in uno stato di contiguità spazio-temporale. La causalità così intesa, afferma Searle, può solo confermare l’aspetto dualistico della realtà; ma se pensassimo invece ad un tipo di causalità in cui causa ed effetto sono presenti simultaneamente potremmo osservare una relazione differente. Ci sono casi in cui un microfenomeno è causalmente responsabile delle macroproprietà di livello superiore: così, ad esempio, il tavolo che sostiene un libro è spiegato a livello del comportamento delle molecole che ne garantiscono la solidità; a sua volta il tavolo esercita una pressione sul pavimento, pressione causata dalla forza di gravità (pp. 111-112). A livello microscopico ciò che si osserva è il comportamento delle particelle subatomiche del tavolo mentre la sua solidità è una proprietà che emerge ad un superiore livello di descrizione; non si tratta di sommare gli elementi del livello inferiore per spiegare le caratteristiche di quello superiore. L’analogia con la mente è immediata: «la coscienza nel cervello non è un’entità o proprietà separata; non è che lo stato in cui si trova il cervello» (p. 188, corsivo nel testo). Su questo punto Searle non ha dubbi: assume come dato certo che la coscienza e il substrato neuronale del cervello possiedono le stesse potenzialità causali (p. 115).

La distinzione tra macro e microlivello è solo una differenza di scala; non aveva torto il fisico teorico britannico Paul Dirac (1929) quando riconobbe la necessità di modificare le idee classiche relative ai concetti di dimensione (grande e piccolo); il concetto di relatività non era più sufficiente, d’ora in poi dovevano essere trattati in senso assoluto poiché, finché i concetti di grande e piccolo restano nell’ambito della relatività, il grande non potrà mai essere spiegato mediante il piccolo.

Qualora si accettasse la proposta teorica di Searle non saremmo ancora in grado di liberarci totalmente dai dubbi. Il punto è che se dovessimo definire qualitativamente il sistema neurobiologico, terremmo sicuramente conto del carattere universale e necessario delle leggi che lo regolano e questo è un problema. Come si può conciliare il determinismo, proprio delle leggi fisiche, con il concetto di coscienza e azione libera del soggetto cosciente?

Di fatto dire che il cervello è un sistema deterministico si accorda perfettamente con chi crede (come i teorici dell’IA) che il cervello sia dotato di caratteristiche unicamente meccaniche analoghe a quelle dei dispositivi digitali, il che ridurrebbe l’azione libera del soggetto ad un «programma implementato da un hardware. Potremmo dare alla mente l’illusione di possedere una volontà libera (…) ma in ogni caso il sistema nella sua globalità resterebbe deterministico» (p. 208). Un modo per non restare imbrigliati nel determinismo è secondo Searle pensare al cervello come ad un sistema quantistico, in cui «lo stato di un sistema in t1 è responsabile causalmente dello stato del sistema in t2 solo in modo statistico, non deterministico. A livello quantistico, le predizioni sono di tipo statistico, data la presenza di un elemento di aleatorietà» (p. 209).

La questione in verità è più complessa. Già nel 1942 l’astronomo James Jeans vedeva l’universo simile a un grande pensiero più che ad una grande macchina. Ma cosa implica postulare una soluzione di questo tipo? Sappiamo che la realtà per la fisica quantistica è descritta in base a onde di probabilità in cui le quantità fisiche delle particelle sono osservabili e misurabili solo in condizioni di collasso delle suddette onde. Fu il fisico teorico Max Born a precisare la natura della relazione tra particelle e misurazione: l’onda associata ad una particella è un’onda di probabilità che ne prescrive le realizzazioni possibili. Ma descrivere lo stato di possibilità attualizzabili in potenza e non attualità vere e proprie lasciò perplessi fisici come Schrödinger (paradosso del gatto) e Heisenberg (principio di indeterminazione, 1927). Von Neumann cercò una soluzione al problema dichiarando che è l’osservatore colui che fornisce le condizioni per far collassare la funzione d’onda di un sistema e per garantire la misurazione delle sue quantità. Si fa lentamente spazio l’idea che il processo decisionale cosciente può avere un ruolo attivo nelle fasi di misurazione. È probabile che Searle, oltre a queste, si sia riferito anche a teorie già note negli anni ’20. Mi riferisco all’idea di Eddington secondo la quale la libera volontà di uomini e animali è possibile solo se pensata all’interno dell’indeterminazione quantistica; in altre parole la natura conserverebbe un margine, sebbene minimo, per esercitare la libera volontà e deviare il corso deterministico degli eventi. Tuttavia Searle non la avalla come una soluzione definitiva, anzi:

«dire che il libero arbitrio è quantomeno possibile se c’è una spiegazione quantistica della coscienza non significa affermare che questa è la realtà delle cose, o almeno che potrebbe esserlo. Significa solo dire che, per quanto ne sappiamo, il solo aspetto sicuramente non deterministico della natura è il livello quantistico, e che per poter ritenere non deterministica la coscienza (…) dobbiamo supporre allora, allo stato attuale della fisica e della neurobiologia, che vi sia una componente quantistica nella spiegazione della coscienza. Non vedo come evitare questa conclusione» (pp. 209-210).

Anche l’intenzionalità (aboutness, “direzionalità della mente”) è pensata da Searle nei termini del naturalismo biologico. Già in Mente, Cervello e Intelligenza (1988) Searle pensava agli stati mentali come a fenomeni reali quanto quelli biologici; anche in questo caso avrebbe torto il funzionalismo computazionale a voler ridurre l’esperienza cosciente esclusivamente agli stati neurobiologici del cervello.

Ne La Mente Searle chiarisce il significato di intenzionalità procedendo analogamente a quanto fatto per la coscienza. «La sete» scrive Searle «è un fenomeno intenzionale. Avere sete significa avere il desiderio di bere. Quando l’angiotensina 2 raggiunge l’ipotalamo e innesca l’attività neuronale che ha come risultato finale la sensazione di sete, ha per ciò stesso come risultato una sensazione intenzionale. Le forme elementari di coscienza e intenzionalità sono causate dal comportamento di neuroni e sono realizzate nel sistema cerebrale, esso stesso composto da neuroni. Ciò che vale per la sete vale anche per la fame, la paura, la percezione, il desiderio e tutto il resto» (p. 149, corsivo nel testo).

I contenuti intenzionali sono tali in quanto possiedono una forma aspettuale, vale a dire che la loro condizione di soddisfazione è di rappresentare il mondo sotto determinati aspetti. «Per esempio» continua Searle «il desiderio di avere dell’acqua non è uguale al desiderio di avere H2O, perché una persona potrebbe desiderare dell’acqua senza sapere che l’acqua è H2O, e perfino credere che non sia H2O» (p. 85); è la forma aspettuale a garantire la distinzione dei contenuti di una credenza. Se il contenuto degli stati intenzionali è una proposizione completa (credere che piova, temere che piova, sperare che piova) si parlerà di direzione di adattamento, la quale specifica maggiormente il nesso tra contenuto intenzionale e realtà rappresentata: «se credo che piova la mia credenza sarà vera se e solo se piove (…) nel caso della credenza, si suppone che lo stato intenzionale rappresenti come stanno le cose nel mondo» (p. 152).

In conclusione, aver ricondotto il fenomeno intenzionale e la coscienza ad un livello maggiore di concretezza è essenziale per due motivi: da un lato dimostra l’irriducibilità ontologica della mente e la sua dimensione soggettiva e dall’altro coscienza e intenzionalità vengono collocati in un contesto sociale costituito da significati condivisi dall’intera collettività.

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