Nel 1998 l’illustre professore della Rutgers University del New Jersey (già professore al MIT di Boston), Jerry Alan Fodor, tenne tre lezioni presso l’Istituto Scientifico Ospedale San Raffaele di Milano, dalle quali nasce il volume La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale, edito da Laterza (2001).
Il libro, nonostante la relativa brevità, non si presenta di agilissima lettura: essendo nato come lezione o conferenza, il testo risente spesso di tale natura concedendosi qualche digressione e ripetizione di troppo (i numerosi chiarimenti in merito a posizioni filosofiche, anche fondamentali nell’ambito, sono utili per i meno informati ma rendono pesante un volume i cui punti chiave sembrano essere pochi). A bilanciare tale malagevolezza provvede lo stile tipico di Fodor, fin troppo leggero: l’autore mantiene un tono allegro accompagnato da spunti di calda ironia.
Il discorso di Fodor verte sullo stato attuale delle ricerche nell’ambito delle scienze cognitive e il nodo centrale dell’intero volume è subito reso chiaro: la teoria computazionale della mente è la migliore in tale ambito, eppure la sua validità si può estendere forse solamente ad un’esigua parte dei processi che compongono la sfera del mentale, la quale resta oggi ancora misteriosa.
Queste le posizioni fondamentali dell’allievo di Noam Chomsky. Le posizioni che invece il filosofo critica sono quelle di innatisti come lui che però soprassiedono sui limiti evidenti della scienza cognitiva. Essi sono soprattutto S. Pinker (Come funziona la mente) e H. Plotkin, che nei loro testi osannano senza spirito critico le ricerche del settore, secondo Fodor in crisi. I limiti della scienza cognitiva, essendo questa – per Fodor – rappresentata dalla TCM (Teoria Computazionale della Mente) in quanto la «migliore» teoria attuale, corrispondono ai limiti della TCM stessa, che Fodor così definisce: «una psicologia razionalista implementata da processi sintattici» (p. 24), una fusione tra la psicologia razionalista (per cui le credenze e i pensieri hanno forme logiche capaci di determinarne i ruoli nei processi mentali) e la teoria della computazione di Turing (per cui i pensieri hanno una struttura sintattica). Più nel dettaglio, essa teoria si fonda sui seguenti assunti cardine: a. i pensieri possiedono ruoli causali principalmente in virtù della loro forma logica; b. tale forma logica sopravviene alla forma sintattica della rappresentazione mentale corrispondente ad ogni preciso pensiero; c. ogni processo mentale (e a fortiori ogni pensiero) è una computazione, cioè un’«operazione definita sulla sintassi delle rappresentazioni mentali [che] conserva attendibilmente la verità in un numero illimitato di casi» (p. 25); d. la tesi della «modularità massiva», per cui la cognizione è per la maggior parte o addirittura totalmente «modulare» ovverosia basata sui moduli, basi di dati capaci di mettere in relazione, all’interno di un sistema computazionale, i propri dati di input caratteristici con i propri output caratteristici limitando le sue risorse informazionali a ciò che è contenuto nella base di dati dedicata; in un sistema modulare, precisa Fodor (che ha parlato di «moduli» a partire dal suo La mente modulare edito in Italia nel 1988), «è l’incapsulamento informazionali, comunque conseguito, a costituire il cuore della modularità» (p. 79); e. la tesi per cui l’architettura cognitiva è un adattamento evolutivo di matrice darwiniana.
Esaminata tale Nuova Sintesi, posizione attualmente più adottata nelle scienze cognitive, Fodor passa alle critiche, cominciando col ragionare come segue. Se i processi mentali sono sensibili unicamente alla sintassi delle rappresentazioni mentali (dacché essi sono computazioni), dato che le proprietà sintattiche sono essenziali per ogni rappresentazione, allora i processi mentali sono insensibili alle proprietà contestuali delle rappresentazioni mentali. Ma questa sembra falso (p. 33). Dunque i processi cognitivi non possono essere computazioni.
Il filosofo argomenta le proprie tesi con altri punti: 1. appurato che la complessità di un pensiero non è intrinseca ma dipende dal contesto, giacché la sintassi di una rappresentazione è una delle sue proprietà essenziali (dunque non muta quando questa cambia contesto), allora la semplicità di un pensiero non può sopravvenire alla sua sintassi, contrariamente a quanto richiede la TCM; 2. se fosse vera una versione della TCM che offra «una caratterizzazione della natura sintattica dei processi mentali compatibile con la possibilità che posseggano determinanti globali» (p. 39), e se davvero vi sono fattori globali nella cognizione, allora «tutta la visione costruita dalla Nuova Sintesi si trova in gravi difficoltà» (p. 40); 3. il «conservatorismo» (la normativa razionale per cui, a parità di condizioni, preferiremmo non mutare mai i nostri piani o le nostre credenze o comunque abbandonarne il meno possibile) è inconciliabile con la TCM, giacché la quineana centralità – concetto qui assunto da Fodor – di certe credenze rispetto ad altre è sensibile al mutamento di teoria che le incorpora, mentre nella TCM le proprietà sintattiche delle rappresentazioni non sono sensibili alla teoria e non possono mutare al mutamento del contesto.
Prendendo le mosse da un testo di J. Tooby e L. Cosmides in cui si afferma che la modularità è una prerogativa massiva della mente, cioè che la mente “funziona a moduli” per la quasi totalità, Fodor tocca il punto nevralgico dell’intero volume: la mente non può essere essenzialmente modulare perché il funzionamento dei moduli prevede una struttura cognitiva con capacità che si limitano alle potenzialità di ogni singolo modulo, ovvero ad una dimensione locale, mentre perché sia dia pensiero di qualcosa, ovvero un concetto, una generalizzazione, una deduzione, una classificazione o una decisione, è assolutamente necessario un processo che riesca ad avere contemporaneamente una visione d’insieme, per così dire, dei dati. Tale processo è l’abduzione. E l’abduzione resta fuori dalla portata di qualsiasi teoria delle scienze cognitive, almeno finora: «per quanto se ne sa, occorre il tipo di ragionamento abduttivo che, per definizione, non è svolto dai moduli e che, sembrerebbe, le computazioni classiche non hanno i mezzi per modellare» (p. 97) né l’approccio euristico né quello connessionista sembrano a Fodor opzioni promettenti.
La questione, aggiunge il filosofo, dell’«analisi dell’input», di come la mente riesca a rappresentare le cose in modi che determinano quali moduli sono attivati, investe l’intera ricerca delle scienze cognitive e si presenta in IA come il cosiddetto frame problem o «problema del quadro di riferimento», matrice di ogni insuccesso nel campo dell’intelligenza artificiale: si tratta di «come realizzare inferenze adduttive che siano insieme fattibili e attendibili» , ma è noto che l’IA «non è riuscita a simulare con successo le più ordinarie competenze cognitive del senso comune» (p. 49). Nei modelli classici «i processi architettonici sono tutti locali, proprio come le computazioni [dunque] nessuno di questi processi risponde in modo non riducibile alle proprietà globali dei sistemi di credenze» (p. 57), mentre, come si sarà ormai compreso, «sembrano esservi dei processi mentali – architettonici, computazionale, o entrambi (chi può dirlo?) – che rispondono a proprietà non locali e non riducibili dei sistemi di credenze, e noi non comprendiamo come funzionano questi processi» (p. 58).
Per quanto concerne il quinto assunto della TCM, Fodor si esprime così: «è manifestamente improbabile che, al livello di astrazione al quale si presenta la scelta tra modularità, computazione a fini generali, o qualcosa di intermedio, l’architettura sarà decisa da considerazioni adattive [e difatti], per come stanno ora le cose, nessuno sa come progettare una qualunque architettura cognitiva che abbia qualche speranza di avvicinarsi a ciò che l’evoluzione ha selezionato quando ha selezionato una mente come la nostra» (p. 89). Il darwinismo psicologico è forse falso dacché non è implausibile per Fodor che «una riorganizzazione radicale della struttura cognitiva globale deve aver avuto luogo nel passaggio dalla loro [delle scimmie] alla nostra mente; e allo stesso momento abbiamo acquisito la nostra capacità caratteristica di compiere inferenze abduttive» (p. 124).
Questo «libro per innatisti» contiene una sorta di programma ipotetico che la ricerca delle scienze cognitive dovrebbe seguire nei prossimi anni. Tale programma ricorda molto la prospettiva di T. Kuhn: in sostanza Fodor propone di concentrare le energie nelle aree dei processi cognitivi dove gli effetti di globalità sono minimi (al punto da poter essere ignorati pur restando scientificamente, oltre che ragionevolmente, comprensibili) mentre si attende che qualcuno scopra qualcosa di sensazionalmente rivoluzionario sulla mente e i suoi processi.
Uno dei maggiori esponenti del cognitivismo conclude dicendo che «finora ciò che la nostra scienza cognitiva ha scoperto sulla mente è stato soprattutto che non sappiamo come essa funziona» (p. 127).
In attesa della sensazionale scoperta scientifica che ci rivelerà finalmente come funziona la mente e trastullandoci da onanisti del logos sui processi abduttivi del pensiero, possiamo ribadire a buon diritto che tutta la psicologia sia un fallimento o in alternativa un aborto pseudoscientifico e sublogico. Per questo, non resta che tornare a Parmenide e ad Aristotele, per fare chiarezza in tutto questo immondo guazzabuglio.
Complimenti per la concisione e la chiarezza dell’articolo, fortemente esplicativo di quelle che sono le tematiche fondamentali della rivisitazione dei concetti che Fodor stesso aveva precedentemente proposto in Modularity of Mind
Ringrazio Giuseppe per l’apprezzamento.