L’arte di correre

tr. it. di A. Pastore, Einaudi, Torino 2013
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Cominciamo dal titolo dell’edizione inglese, al quale la versione einaudiana non rende giustizia, e che può così essere tradotto: ‘Di cosa parlo quando parlo di corsa’. È un omaggio di Murakami Haruki al suo Raymond Carver (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore), profeta del minimalismo. Quando parliamo di corsa – sottintende lo scrittore giapponese – parliamo di tutto, anche se la corsa potrebbe sembrare un angolo visuale, rispetto alle cose umane, meno strategico e penetrante in confronto all’amore. Parliamo del modo di stare su questo mondo, che in Murakami è soprattutto gesto della scrittura: così il libro diventa anche una sorta di manuale di poetica personale.

Il discorso si nutre, nel suo snodarsi cadenzato come il passo del maratoneta, di continue trasfusioni di senso dalla dimensione della corsa a quella della scrittura. La corsa del maratoneta, solitaria anche se spesso diluita nell’onda maestosa degli altri corridori, si pone come una mise en abîme della vita-scrittura, ne riproduce e ne restituisce le perplessità come le sicurezze, i momenti di défaillance come le ritrovate energie e le sofferte conquiste.

La corsa è anzitutto esercizio, forma di meditazione e modalità di rafforzamento del corpo e dello spirito. Racchiude in sé una dimensione ascetica, dal greco askesis, parola che in origine significava proprio esercizio, allenamento di un atleta in vista di una prova. Così in Murakami: l’askesis non è svalutazione della corporeità ma si fonda su pratiche che mirano a sviluppare e controllare le capacità fisiche. L’askesis del corpo ha ricadute positive sull’efficienza della mente nell’attività della scrittura: è come se la mente stessa si modulasse secondo una sua plastica morfologia, di propensione per così dire atletistica, coltivando una resistenza fisica che precede e rafforza la vocazione e il talento:

la capacità di concentrazione e la perseveranza, al contrario del talento, con l’allenamento si possono acquisire e coltivare, anche potenziare. Si svilupperanno naturalmente esercitandosi ogni giorno a stare seduti alla scrivania e a focalizzare la propria attenzione su un punto. […] Questo processo è simile all’allenamento muscolare. Bisogna inviare di continuo al nostro organismo, e farglielo assimilare bene, il messaggio che ci è necessario scrivere senza interruzioni, lavorare concentrandoci giorno dopo giorno. Poi gradualmente spostare il limite più in là (pag. 68).

Corsa e scrittura non possono essere imposte: attraverso di esse, liberamente scelte inseguendo le proprie inclinazioni, può generarsi un misterioso accordo con l’universo, che invita al suo ritmo segreto. Correre implica uno strenuo dialogare con il proprio corpo, uno scambiarsi messaggi continui con le proprie capacità e i propri limiti. È un’educazione all’ascolto di se stessi che risulta fondamentale anche per la scrittura:

ho imparato molte cose riguardo alla scrittura facendo jogging ogni mattina sulle strade. In maniera naturale, con la pratica. Quanto posso mostrarmi severo verso me stesso? Ho sviluppato adeguatamente il mio fisico? Mi sono riposato abbastanza? […] Quanta fiducia posso avere nelle mie capacità, devo dubitare ancora di me stesso? Se all’inizio della mia carriera di scrittore non avessi cominciato anche quella del maratoneta, ho l’impressione che le mie opere sarebbero state diverse (pagg. 70-71).

Scrivere è faticoso anche fisicamente, come correre: «Scrivere un romanzo, fondamentalmente, è una sfacchinata… In sé, l’atto di redigere delle frasi è forse uno sforzo mentale. Ma scrivere fino in fondo un libro intero è qualcosa che si avvicina alla fatica fisica» (pag. 68). Scrivere è non aver indulgenza per se stessi, sfruttando sino in fondo tutte le risorse del proprio fisico: «È ovvio che è la testa, il cervello, a formulare i pensieri. Ma lo scrittore assimila quell’apparato che si chiama “racconto” e lo pensa con tutta la propria persona, azione che lo obbliga a usare la propria resistenza fisica in misura adeguata – in molti casi a sfruttarla senza pietà» (pag. 69). Quando il pensiero fa appello anche alle risorse fisiche, può nascere quel singolare impasto emotivo di fatica e (a volte) di piacere che caratterizza l’efficacia liberatoria e conoscitiva della scrittura. La forza mentale non può fare a meno della forza fisica: bisogna però distinguere fra la fatica del corpo attraverso la corsa e la fatica della scrittura, e questo Murakami fa in uno dei passaggi a mio parere più intriganti del saggio. La fatica fisica ha un che di benefico e gratificante: come si sa, combatte lo stress e rilascia endorfine. Non così la scrittura, perché «scrivere è un’attività malsana. Quando decidiamo di scrivere un libro, cioè di creare una storia dal nulla servendoci di parole e frasi, necessariamente estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano» (pag. 83).

Affondare il coltello nelle piaghe dell’emotività ha un prezzo: come toccati dalle piaghe stesse, si viene restituiti ai rapporti quotidiani con estenuato e inficiato spirito di socialità. Scrivere è liberare un veleno, provando a liberarsi dello stesso veleno: il veleno celato nell’emotività. La scrittura, allora, è un’attività malsana perché porta a contatto con un virus per certi versi dormiente: lo scrittore di romanzi lo desta nella sua temeraria impresa affabulatoria; quanto più le storie sono forti, poi, tanto più cresce il tasso di tossicità che viene, per così dire, messo in circolo. Per questo lo scrittore deve avere un potente sistema immunitario – della psiche – altrimenti rischia di essere sopraffatto dai miasmi dell’animo umano che evoca. Negli altri la ‘tossicità’ resta spesso inerte o scandisce il naturale articolarsi dei rapporti umani attraverso manifestazioni più o meno inconsapevoli; lo scrittore quasi chirurgicamente la individua, la provoca, la porta alla luce. Può scontare quest’operazione, come si diceva, con l’asocialità proprio perché meglio degli altri sa il male. Lo scrittore è in tal senso il maieutico del male ma è proprio in questa operazione che si annida, insieme alla condanna all’isolamento, la possibilità di una taumaturgica catarsi.

Corsa e scrittura si incontrano anche nella meditazione: «Il mio modo di correre assomigliava a uno stato di meditazione» (pag. 97). E anche: «mentre scrivo penso. […] Non è che metta per iscritto le cose che ho pensato, le penso mentre le scrivo. Le mie idee prendono forma nell’atto stesso di scrivere» (pag. 101). Quando si corre, anche in mezzo agli altri si vive appieno la fascinosa dimensione della solitudine. Lo sguardo si cala in se stesso per volgersi all’esterno e poi ritornare in sé, nell’abisso oscuro della propria individualità. Si corre nel vuoto, o è anche possibile che si corra «per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello. È naturale, perché nell’animo umano non può esistere il vuoto assoluto. Il nostro spirito non è abbastanza forte per concepire il nulla […] i pensieri che si avvicendano nella mia mente mentre corro sono semplicemente dei derivati del nulla, tutto lì. Si formano ruotando intorno al nulla» (pag. 18). È questo un altro momento di particolare incisività del saggio. Nella percezione del vuoto, suggestioni atomistiche mai del tutto sopite s’incastrano forse con mistiche buddiste: l’askesis della corsa diventa qui distacco da tutto ciò che c’inchioda a questa terra, ma questo distacco non può essere mai assoluto perché l’uomo non è abbastanza forte – e coraggioso – per attingere il vuoto-nulla e in esso dissolversi. Può solo averne il sentore, lasciando fluttuare pensieri che ‘corteggiano’ il nulla, che nascono dal nulla e a esso incessantemente ritornano.

Quando si corre, ci si sente parte di un paesaggio: «Mentre corro, all’improvviso formulo questo pensiero: anche io a modo mio sto invecchiando, e il tempo si prende la sua parte […]. Posso soltanto accettarmi così come sono, come parte di un paesaggio naturale. Come un fiume che scorre verso il mare aperto» (pag. 22).

In quei rari momenti di prodigiosa sintonia con il creato, essere al mondo significa al mondo, appunto, votati e confusi al mondo: alla terra che calpestiamo, alle montagne che guardiamo, agli alberi che ci scivolano accanto, al cielo al buio alla luce in cui siamo inesorabilmente immersi. Ci si sente quella nullità che si è e che ci si dimentica quotidianamente di essere, ci si sente parte infinitesimale e peritura di un ciclo imperituro, al pari di una lucertola, di un soffio di vento, di un filo d’erba. Forse allora soltanto si può percepire il palpito violento e transeunte della vita. E della morte. La corsa fa confondere e nello stesso tempo diviene una sorta di principio individualizzante: «alla fine non solo non sentivo più la stanchezza, non potevo neanche più formulare pensieri del tipo “chi sono?” o “cosa ci faccio qui?” Non mi rendevo conto, come invece avrei dovuto fare, che c’era in tutto ciò qualcosa di strano. L’azione di correre mi aveva portato in un territorio quasi metafisico. Prima di tutto esisteva la corsa, e in funzione della corsa esistevo io. Corro, dunque sono» (pag. 96). Al termine della sua ‘corsa’, Murakami recita così il proprio epitaffio: «Murakami Haruki Scrittore (e maratoneta) 1949-20** Se non altro, fino alla fine non ha camminato» (pag. 142). Come dire: se non altro, fino alla fine ha vissuto, se vivere è braccare il proprio destino ed esserne a propria volta braccati, accettando ogni sfida nel fitto intrico degli attimi; se vivere è confondersi nel movimento dell’universo, inseguendo il daimon che si agita in noi.

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