Lo scheletro del serpente

Calibano Editore, Novate Milanese (Mi) 2021
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Vi sono opere segnate da un felice connubio tra vicende private ed eventi storici, tra ispirazione autobiografica e dignità letteraria. Così Lo scheletro del serpente di Stefano Testa, che meriterebbe riconoscimenti e risonanza ben maggiori di quanto abbia.

L’autore ha inciso nel 1977 un disco di progressive rock ben noto agli amanti del genere: Una vita, una balena bianca e altre cose. Da fedele adepto della mitologia melvilliana ho conosciuto per questo, molti anni or sono, le composizioni di Stefano Testa, a partire appunto da quella straordinaria dedicata al capitano Achab. È solo negli ultimi anni, dopo altri due più recenti dischi, che Testa si è dedicato alla prosa, o quantomeno in maniera pubblica, con due tomi di raccolte di racconti (Qui, a farci quel vento, 2018) e in questo 2021 con appunto Lo scheletro del serpente, che è romanzo in chiaroscuro, affascinante, dalla doppia natura, se non addirittura tripla. La vicenda di fondo è quella dell’anziano protagonista che ha affittato parte della propria dimora a tre altri anziani dozzinanti: costoro sembrano abbandonare finalmente la dimora del narratore, ma questi se ne rivelerà legato in maniera ambivalente, come se non riuscisse a liberarsene poiché inconsciamente sente la propria vita intrecciata con quella di quegli ospiti per lui sgradevolissimi, in una situazione che si mostra dapprincipio kafkiana.

La prima parte del libro vede alternarsi due narrazioni: un capitolo narra le vicende del protagonista alle prese coi dozzinanti, il capitolo successivo ci presenta invece gli appunti che il narratore sta scrivendo per comporre a sua volta un romanzo che riguarda il passato della propria famiglia, in particolare il nonno Pericle, fascista molto probabilmente implicato in una strage nei territori della ex Jugoslavia, e i genitori. Le due componenti si alternano continuamente, conferendo al libro di Testa un ritmo sostenuto, che invoglia alla lettura. La vicenda arriverà a un punto di svolta quando farà la sua comparsa una giovane cieca, Oxana, che incarna uno spirito del passato. Del resto, i tre dozzinanti, Amos, Orfeo e Oscar sembrano rappresentare tre componenti fondamentali dell’animo del protagonista, ben presenti nel libro: la riflessione filosofica, specie dinnanzi alla morte; la passione per la musica; la critica letteraria, rivolta innanzi tutto verso sé stesso.

La seconda parte, meno corposa, si risolve con una certa dose di ironia nell’abbattimento della finzione letteraria, in una sorta di metaletteratura in cui l’autore stesso è spesso chiamato in causa dai propri personaggi.
Quale significato attribuire dunque a questo romanzo dall’indubbio valore letterario? Nessuno, ovviamente, basterebbe già questo, l’avere dischiuso la porta della letteratura per entrare ad abitare nelle sue stanze in penombra per conferire senso alla scrittura di Testa.

Eppure vi è dell’altro, ossia il tentativo vivido ed efficace di fare i conti con un passato che per me, di un’altra generazione, sembra lontano più del secolo che ci separa dall’origine di quei fatti che inquietano il protagonista narratore. Nel libro vi è un solo riferimento storico connotato di un appiglio cronologico: il 12 luglio, e un nome di un villaggio: Podhum. In tale giorno del 1942 a Podhum furono fucilate centootto persone (così dice la Treccani; altrove ho letto novantuno), mentre le altre ottocentoottantanove che componeva il resto della popolazione venne deportata nei campi di concentramento e il villaggio venne raso al suolo. Il prefetto che stando alla versione ufficiale dette l’ordine era Temistocle Testa.

Il protagonista molto spesso si trova a fronteggiare i fantasmi del passato, in senso letterale, gli spiriti dei suoi genitori e di suo nonno, chiamato Pericle, come accennavamo. E si chiede perché la responsabilità di quei fatti atroci debba ricadere anche su chi come lui e i tre dozzinanti (accomunati dal fatto di avere avuto nonni che erano soldati nella ex Jugoslavia) all’epoca dei fatti non era neanche nato.

Mi permetto di riportare una confidenza che mi ha fatto via messaggio Stefano Testa: la stesura di questo libro gli è costata fatica e dolore. Questo la rende anche un’opera sofferta e autentica.

Nel finale poi la narrazione abbandona i tratti più austeri della responsabilità storica e veste i panni più leggeri dell’ironia letteraria, rivolta innanzitutto all’autore a opera di alcuni personaggi. Perché in letteratura l’analisi storica e la critica stilistica e strutturale vanno di pari passi. Non si può accedere al passato, non si possono fare i conti con esso senza criticare la funzione autoriale di chi quei fatti cerca di raccontarli. Stefano testa nasce come musicista prog, ossia come uno che è abituato a cavarsela in strutture ampie e variegate. Possiamo bene dire che in questo ambito il suo percorso è stato lineare.

È vero, la storia ormai ci riguarda quasi solo come storiografia. Trattarla letterariamente è forse il modo che ci è rimasto per raccontarla quando ci riguarda intimamente. Stefano Testa ci ha confezionato un romanzo storico ma a tratti surreale, i due piani corrono intrecciando il loro percorso. Se la storia che ci racconta ha il tratto peculiare della vicenda familiare e privata, la letterarietà ci restituisce invece degli eventi universali, con cui tutti dobbiamo confrontarci, ancora e per sempre.

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