Sitosophia

Non voglio morire. Miguel de Unamuno e l’immortalità

Scoprire gli altarini, in senso più letterale che figurato, è compito filosofico. Il filosofo è uno che scopre sottane e altarini, per accorgersi che quanto v’è sotto nascosto così poco spesso corrisponde a ciò che il nostro desiderio s’era figurato. Che atto di filosofica pietà, di agape schopenaueriana, voler ricoprire una terribile verità, come vuole la goliardia nascondere con un cuscino la faccia di una donna brutta per poterne lo stesso godere fisicamente. Ma per quanto si può tenere un cuscino premuto su un viso senza rischiare di soffocare la persona di cui si vuole godere? Così con la verità. Per quanto l’altarino è ricoperto, per quanto il filosofo bonariamente, paternalisticamente vorrebbe celare altrui l’abisso orrido e immenso della realtà, questa gli sfugge di mano ed egli non può, non vuole soffocarla. La consolazione filosofica non può nulla contro ciò che la filosofia stessa ha svelato. Che personaggio ambiguo, messere il filosofo, che prima denuda e poi, vergognoso del proprio atto e di ciò che ha messo a nudo, tosto vuol ricoprire.

L’altarino religioso tanto spesso è stato scoperto e le sottane dei preti sollevate. Stendiamo un velo pietoso.
Ciò che s’è visto lo sanno tutti: la religione – checché se ne dica – è fondata sulla paura della morte, sul non rassegnarsi a morire, sul non volere accettare che prima di nascere così come dopo essere morti non v’è altro che il nulla.

Sulla non accettazione della morte, Stefano Scrima ci ha fatto un libro, utilizzando de Unamuno. E ha fatto bene. Anzi, il libro dovrebbe essere un saggio sul filosofo spagnolo, ma trasuda della passione di Scrima. Si nota in filigrana che, dietro il disegno di un ottimo saggio sullo spagnolo, sia introduttivo che specialistico, sono gli interrogativi dell’autore a segnare il passo. La figura del filosofo tragico ne esce a tutto tondo, pur nella centralità assegnata all’interrogativo sull’immortalità e al fermo proposito unamuniamo riportato anche in quarta: «Non voglio morire; non voglio, e non voglio volerlo; voglio vivere sempre, sempre, sempre, e voglio vivere io, questo povero io che sono e sento di essere ora e qui».

De Unamuno incrocia i fili dell’argomentazione logica con quelli del sentimento innescando un cortocircuito esplosivo: vuole vivere eternamente, non come anima, non come corpo spirituale, bensì come uomo in carne e ossa, come vita terrena di carne e sangue, come io che perennemente gioisce, ama, soffre, prova dolore, fame, sete. Per Unamuno l’anima non può essere staccata dal corpo. Questo è uno degli aspetti che distingue il suo cristianesimo personale dal cattolicesimo: «Non concepisce l’anima come qualcosa che possa sussistere senza corpo, che possa davvero sopravviverci, sola, dopo la morte: anima significa memoria negli altri, gloria, vivere nelle proprie opere, nei propri pensieri pensati da altri. La vera vita è, invece, quella nel corpo» (pag. 128). O nella parole di Unamuno: «Tremo all’idea di dovermi separare dalla mia carne; tremo ancor di più all’idea di dovermi separare da tutto ciò che è sensibile e materiale, da ogni sostanza» (citato a pag. 136).

È una protesta contro la mancanza di senso della vita, contro l’assurdità di essere gettati nell’esistenza, averne consapevolezza, e dovere comunque morire, essere finiti, destinati al nulla. È sulla base del sentimento che gli rende impossibile accontentarsi della finitudine che Unamuno si riscopre religioso e cristiano. Ha ragione Scrima, quando confronta il beffardo e scettico Borges con l’ansia del filosofo spagnolo di immortalizzare il proprio io: «L’immortalità è assunto prettamente religioso, e senza la religione, bisogno estraneo all’argentino, anche il bisogno di volersi immortali – “anima e corpo” – si sgretola tornando sabbia del deserto di cui anche noi torneremo a far parte» (pagg. 224-225).

Il contrassegno di De Unamuno è il paradosso: volersi immortali ma non voler abbandonare la vita mortale; lottare contro il destino, la sorte, la mortalità, non per vincere, ma per continuare a lottare; credere in Dio come fondamento dell’immortalità eppure fondare Dio sull’ansia di immortalità. E Scrima fa bene a sottolineare come gli ultimi scritti del filosofo spagnolo siano ambigui, quando ci presentano un prete che assicura la gente semplice circa una vita ultraterrena ma in fondo non ci crede più, ha perduto la fede.

De Unamuno si è fatto cristiano perché tutto il suo corpo, tutti i suoi istinti protestano e si ribellano contro la morte. Giustamente Scrima nota: «Ma si crede nell’immortalità e nella resurrezione perché si è cattolici o, la contrario, si è cattolici (si crede d’esserlo) perché si crede (o si vuol credere) nell’immortalità e nella resurrezione? È quest’ultimo il caso di Unamuno, uomo tormentato dal proprio destino personale» (pag. 138).

E tale destino ha fatto intraprendere al filosofo il difficile percorso di una vita eroica, spesa a lottare contro un nemico imbattibile: la morte. Ancora una volta si rivela l’ambiguità – feconda – del pensiero unamuniamo, perché proprio l’impossibilità di una vittoria rende la vita degna di essere vissuta, proprio l’inappagabilità del desiderio conferisce al desiderio stesso l’energia che lo suscita e la forza che lo spinge costantemente innanzi.

Il saggio di Scrima offre un’ampia panoramica sui vari temi affrontati da Unamuno, che però ruotano attorno al perno dell’eterno interrogativo sulla morte e l’immortalità. Trovano spazio anche interessanti confronti con Cristo, certamente, Paolo di Tarso e i grandi pensatori cristiani Agostino e Tommaso; con Francesco d’Assisi, pure. Poi anche con Pessoa e Papini, per finire con Borges e Leopardi, dal confronto col quale si trae la conclusione che «il furore unamuniano fa sperare, la malinconia leopardiana fa disperare» (pag. 241).

Non nascondo che l’approccio di De Unamuno è affascinante. Mi ricorda i bei giorni della florida gioventù, quando sedicenne, diciassettenne sentivo la vita fluirmi in piena nelle vene e mi pareva impossibile che un giorno questo impulso vitale si sarebbe dovuto misteriosamente spegnere. S’ha da essere giovani, tanto giovani per non volersi rassegnare alla morte, per cercare ancora in tutti i modi di nascondere la cruda realtà del perire perenne e universale. Così come quando si è giovani si scherza – lo dicevo all’inizio – che si vorrebbe coprire il viso della persona brutta che si vorrebbe concupire. Poi si cresce, tutta questa voglia di indiscriminato scopare, tutta questa voglia di campare come che sia passa. Si guarda in faccia la realtà, si guarda tante volte in faccia la morte; o i morti, fa lo stesso.

È vero, sorge ancora la protesta, in altre forme, più sottili, perché ha ragione ancora Scrima: «Chiedere l’immortalità, a Dio, al destino, alla terra, a sé stessi, è sempre protesta. E anche la letteratura e la filosofia – la buona letteratura e la buona filosofia – lo sono. Raffinata protesta contro la sterilità della terra che non sa che condurci al “sottoterra”» (pag. 217).

E io che scrivo di rimando al buon Stefano Scrima, e lui come me che ha scritto il libro, e tanti altri come noi, di tutte le età, di tutte le epoche, giganti o mediocri, che altro siamo quando tracciamo parole su un foglio, se non un compulsivo moto di protesta, un guizzare della fiamma di gioventù destinata anch’essa a perdersi? Se il genio consiste nel salvare una lingua del fuoco giovanile e farne torcia che mai non si spenga – come dice Papini citato da Scrima –, vive eterno chi vive giovane, idealmente, nella bella età delle illusioni e dei sogni. Fiamma che arde e consuma sé stessa.

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