Stupidità

Bompiani, Milano 2012, pagg. 176.
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Il computer ci ha reso stupidi, il mare spumeggiante del web ci rende ancora più stupidi.

È vero quanto appena detto o, forse, nelle viscere di questo (presunto) assioma serpeggiano la noncuranza e l’arrendevolezza allo tsunami arrembante del luogo comune di chi spesso non vuole o non sa più ascoltare il rodio fastidioso del pensiero che rivendica più considerazione? Proviamo allora a capovolgere quell’assioma o, per meglio dire, a declinarlo con diversa trasversalità semantica: il bombardamento imposto e autoimposto della cultura e del culturame che viaggia a velocità supersonica sulla Rete ci ha reso più stupidi nel senso che ci ha privato del sollievo sottile e impagabile della ‘stupidità’, intesa come consapevole e feconda ignoranza, come dubbio (un tempo) destinato a restare tale, del sottile compiacimento del ‘non sapere’ e della fatica – non legata alla nevrotica digitazione, bensì alla ricerca appassionata sulla carta stampata – per colmare il momentaneo vuoto. L’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere, per dirla con Elias Canetti: l’ignoranza satolla è borborigmo intellettuale, pseudo sapere sottoposto a innaturale accelerazione, accumulazione, sovrapposizione. La Rete ci ha reso allora più stupidi perché lo siamo di meno, ci ha deprivato di quella umiltà e, direi, di quella irrequieta eppure vitale consapevolezza di non sapere – l’ignoranza ‘ricca’ – che sono il sale e il segreto del sapere più autentico.

È questo uno degli spunti interessanti che offre alla riflessione il libro di Gianfranco Marrone, Stupidità, pubblicato da Bompiani nel 2012. Siamo diventati «più furbi, più capaci, e più stupidi» (pag. 68) : più furbi e più capaci in quanto fruitori di software e perché per ogni nostra domanda – anche la più assurda – a saper smanettare è bell’e pronta l’answer di turno; più stupidi perché lo sterminato ‘sapere’ appare come irrelato e frastagliato in mille isolotti di diversa natura e consistenza, «senza cornici interpretative che ne dettino il significato» (pag. 73), e perché la domanda stessa, come in diabolica partenogenesi, germina dal medium stesso, alimentando non altro che una coattività senza fine: «è la rete, nella sua sofisticata complessità e puntigliosa ramificazione, a costituirci come soggetti desideranti e formare al tempo stesso i nostri mutevoli oggetti del desiderio» (pag. 70). Un serbatoio inesauribile e sconfinato, dunque, che non si limita a soddisfare le nostre ‘curiosità’ ma che ne modula i tic e le pulsioni, sottraendoci il ‘piacere’ del flop memoriale: «Quel che viene a mancare […] è la possibilità di dimenticare, di staccare la spina dalla facoltà di ricordare in modo da perdersi nella nostra scemenza quotidiana» (pag. 74).

Una delle tesi del libro che appare per certi versi portante è l’individuazione di tre principali fasi della stupidità. La prima è la fase per così dire preculturale, in cui lo stupido si avvicina all’animalità: il personaggio scelto per esemplificare questa dimensione della stupidità è Giufà, ‘maschera’ della tradizione folklorica siciliana, che non è in grado di decodificare nemmeno la più semplice delle metafore: per lui il linguaggio è tout court realtà, le parole corrispondono alle cose. Giufà rappresenta l’alterità rispetto all’intelligenza comune. Nell’età moderna – siamo alla seconda fase – la ragione non coincide più con un buon senso diffuso e condiviso che è in grado agevolmente di individuare l’altro da sé ma con «un insieme di meccanismi mentali» (pagg. 26-27). La fenomenologia dello stupido si complica e non può essere più fissata in un ‘modello’: lo stupido può essere il matto, il genio, il santo, l’artista, l’aristocratico privo di senso pratico, il borghese «che si limita a un’intelligenza specialistica, parziale, chiusa in un solo campo» (pag. 17). Si danno quindi determinazioni oscillanti, non definitive, precarie dell’alterità: la stupidità tende a configurarsi come relativa e relazionale. Veniamo poi alla terza fase, quella del postmoderno. Non ci sono più stupidi ma c’è la stupidità e sparisce ogni possibile alterità, sia quella individuata sia quella fluttuante; se tutti sono stupidi, nessuno lo è. La stupidità diviene strutturale, invasiva, immersa nel processo di globalizzazione, che non consente più di definirla: «In un mondo dove ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più, poiché nessuno potrà riconoscerlo» (pag. 11).

In questa prospettiva si può inquadrare, a mio parere, la stupidità del pensiero rattrappito nell’inglese universale. Parlare la lingua universale per eccellenza – se non se ne è capaci, si rischia di passare per… ‘stupidi’! – attraverso un codice rigido di formulari immiserisce il messaggio: ma si sa che la lingua può sprigionare i suoi bagliori solo attraverso la complessità, la modulazione, la nuance, il gioco retorico. L’inglese universale è un codice senza messaggi, una ‘langue’ senza ‘parole’: torniamo in qualche modo tutti Giufà nel linguaggio necessariamente impoverito di metafore, in nome di una referenzialità che si vuole ad alto tasso comunicativo ma proprio per questo rozza, povera, ripetitiva. Si regredisce a una sorta di «afasia: si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali»: così Pasolini in Genocidio (1974) prendeva atto della morte della lingua viva, del dialetto che «era rigenerato da continue invenzioni». Oggi dialetto è la lingua italiana.

E che dire della stupidità scambiata per intelligenza? Marrone fa riferimento al romanzo Being there (in italiano Presenze) di Jerzy Kosinsky, da cui è stato tratto il film omonimo (in italiano Oltre il giardino). Si tratta di una storia in cui, attraverso un gioco di equivoci e fraintendimenti, il sempliciotto viene creduto intelligente. A questo proposito, sono fermamente convinto che l’Italia oggi sia piena di parlamentari, primari, professori, scrittori, presidenti di…, e così via, ‘stupidi’. È chiaro che lo stupido, soprattutto quando conquista posti di potere (e questo, purtroppo, gli riesce più spesso di quanto non si possa credere), sa essere scaltro, spregiudicato, prevaricatore. Sono convinto inoltre che l’‘intelligenza’ sia un’altra cosa. E che la faccia di molti politici non esprima propriamente intelligenza, al pari delle parole che incautamente pronunciano. Questo non gli impedisce di essere ‘autori’ perfino di riforme (qui è la tragedia). Ma restano… stupidi.

Tornando al libro di Marrone, direi che la tesi principale non viene suffragata adeguatamente con gli altri riferimenti disseminati nel libro. Le pagine su Adorno, Lotman e quelle (un po’ prolisse) sul Pendolo di Foucault di Eco aggiungono nuove sfaccettature alla fenomenologia della stupidità – variamente chiamata – con esiti alterni e rischiando di far perdere al lettore il motivo unificante. Si procede, più che per sviluppi e collegamenti, per giustapposizioni e costellazioni argomentative. Quanto allo stile, Marrone modula di norma il suo argomentare sul tono mediocris, poi talvolta viene un po’ risucchiato nel tono più professorale.

Le pagine più intriganti, oltre a quelle sul computer, sono a mio parere quelle sull’amore. Qui, con opportuni e frequenti riferimenti ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, l’autore ben coniuga l’intento divulgativo con il rigore terminologico e argomentativo. Il linguaggio amoroso è un particolare codice comunicativo: «La necessaria presenza della stupidità al suo interno garantisce, se non la ricchezza espressiva, quanto meno le sue capacità comunicative» (pag. 98). C’è una contraddizione insita nell’amore, che è una delle sue principali caratteristiche: «Da un lato sembra essere il più intimo, il più personale, soggettivo e segreto dei sentimenti. Ma nel momento in cui ha bisogno di un codice per manifestarsi, deve far ricorso a un insieme di topoi, ossia a un linguaggio […] privo di segni d’identificazione identitaria» (pag. 105). L’amore si parla con una lingua già mille volte parlata ma sobbarcarsi il peso dei luoghi comuni rappresenta per l’innamorato un viatico ineludibile: «Il discorso amoroso sopporta volentieri il carico di luoghi ‘comuni’ che il sapere ‘normale’ esclude dal suo campo significante. L’innamorato può parlare per luoghi comuni: nessuno l’accuserà d’essere uno stupido» (pag. 106). Anzi «l’essere stupido dell’amore è in fondo l’ultima e definitiva riprova della sua necessità, della sua prorompenza, della sua verità» (pag. 106).

Se nell’inglese universale c’è un codice senza messaggi, segnato da anonimato e ripetitività che depotenziano la creatività della lingua e soffocano l’individualità, nell’amore il codice è il messaggio perché la ‘stupidità’ dei topoi è la forza dell’amore, non si può amare senza essere stupidi per tutto il tempo in cui si ama. Volentieri e naturalmente ci si adagia sulle onde dei topoi per rivendicare paradossalmente la propria individualità: io amo, sono proprio io a essere entrato nella cerchia dei ‘fedeli d’amore’; mi vesto allora dell’armamentario dei topoi per dichiararmi innamorato — a me stesso prima che all’amata. Il ‘luogo comune’, nell’attimo magico dell’esperienza dell’amore, diventa il luogo unico. Sempre uguale sempre diverso l’amore, come la vita stessa. Bisogna allora percorrere senza tentennamenti la stupidità dei topoi, farsene permeare fino in fondo per vivere l’esperienza amorosa: è il prezzo che l’amore richiede, uno degli esiti inaggirabili del sottile e tenero masochismo che è nella sua natura più riposta.

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