Tolle divitem

Del Prisma, 2006
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Il De divitiis è un testo molto particolare, con intenti ben precisi, dal momento che può essere studiato come “voce alternativa” rispetto alle testimonianze letterarie di Sant’Agostino, Sant’Ambrogio e di altri autori pagani e cristiani, tra l’altro citate da Santo Toscano nel suo lavoro. Scritto nel V secolo D.C., sicuramente dopo il Sacco di Roma del 410, il De divitiis è stato composto,secondo la maggior parte della critica, in Sicilia ( anche se non mancano interpretazioni critiche che parlano della Gallia o di un viaggiatore dell’Urbe che, in un soggiorno nella Trinacria, avrebbe composto l’opera) da un autore anonimo, che da Caspari viene identificato con l’autore britannico Agricola Pelagianus. Infatti alcune fonti (Gerolamo e Prospero d’Aquitania) tramandano la diffusione dell’eresia pelagiana in Sicilia.

La Sicilia tra il il IV e il V secolo d.C.: un breve cenno. Ed è sempre in questo periodo che i ceti più abbienti, di rango equestre e senatorio cominciavano ad abbandonare la vita urbana ritirandosi nei propri possedimenti in campagna. Inoltre ingenti quantità di denaro furono spese per ingrandire, abbellire e rendere più comode le residenze extraurbane: ad esempio le ville lussuose di Piazza Armerina, del Tellaro e di Patti Marina, caratterizzate da raffinate architetture e da preziosissime pavimentazioni a mosaico. Il quadro socio-economico esposto nel “De Divitiis” è similare a quello che conosciamo sulle ville della Sicilia tardo-antica.

L’istantanea della tarda antichità fornita dal De divitiis in relazione alla lettura di Santo Toscano. Toscano ha proposto ai suoi lettori un saggio originale che riesce ad evidenziare tutta l’importanza del “De Divitiis” per la storia socio-economica della tarda antichità, facendone una lettura “sub specie religionis”.
La seconda parte del saggio “Tolle divitem” è volto all’analisi della società dell’operetta dell’anonimo plagiano, il quale anticipa, per criticarlo, il concetto medievale di “societas christiana”, che viene eccezionalmente indagata con la connessione di ricchezza e potere politico.
Lo spreco del banchetto, il lusso eccessivo delle abitazioni dei ricchi, mettono in evidenza come la ricchezza sia nelle mani di pochi, i quali sono propriamente coloro che detengono il potere.
Ed è dunque da questo contesto storico-sociale che scaturisce la critica dell’autore pelagiano alla sua società, che in fondo può essere definita “malata”: la concentrazione della ricchezza fondiaria nelle mani di pochi che detengono il potere, l’economia di lusso di questa classe e l’insicurezza sociale dilagante nell’epoca analizzata, giustificano l’affermazione di un contesto sociale affetto da un morbo difficile da curare, forse il peggiore: l’avarizia.
Per di più tali ricchi si professano cristiani, e la loro ricchezza viene particolarmente osservata da Toscano che evidenzia la tensione tra la forma e i simboli della ricchezza.
Questa è stata la conseguenza più grave di una cristianizzazione di massa, che vede molti uomini convertirsi alla “nuova” religione, ma allo stesso tempo una scarsa qualità delle stesse conversioni definite “senza dynamis”.
Quella cui ci pone davanti l’autore del “De Divitiis” è una dilagante economia di lusso basata sulla liquidità dell’aristocrazia romana. Ma l’anonimo autore non si limita a criticare il contesto sociale in cui vive: appare un cristiano fermo volto ad una ricerca “apud Deum” e alla fedeltà del messaggio cristiano espresso nei Vangeli.
Ed infatti, a tal riguardo, Toscano mette in evidenza un episodio biblico molto ricorrente nel “De Divitiis”: Gesù Cristo davanti a Pilato.
Sembra quasi che il figlio di Dio sia stato condannato dagli uomini perché con il riferimento al suo regno che non è di questo mondo avesse minacciato la bramosia di potere degli uomini al comando, dimostrando di essere per loro una figura scomoda.
All’autore plagiano l’unica alternativa basata sui precetti evangelici al suo contesto sociale, un divitiarum cumulus è un mondo senza ricchi; infatti afferma: «Tolle divitem et pauperem non invenies».
L’avarizia è la madre della ricchezza ed è paragonato al peccato originale da cui si dipartono tutti gli altri mali. E l’autore del “De Divitiis” sembra riscontrare una delle motivazioni filosofiche nel detto di Protagora “Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono”: ed infatti l’uomo reputa innocua la terrena cupiditas su cui si fonda la terribile divitia, madre di tutti i mali.

Seneca “anticipatore” delle teorie cristiane: aspetti filosofici del De divitae. «I poveri vogliono sempre qualche cosa, i ricchi vogliono molto e gli avari vogliono tutto». Lucio Anneo Seneca è il principale rappresentante dello stoicismo romano, corrente che dà ampio rilievo alla tematica etica e religiosa. La sua dottrina filosofica ha così spiccati caratteri di religiosità e somiglianza con le teorie del cristianesimo da far nascere la leggenda dei rapporti intercorsi tra Seneca e San Paolo.
Evidenti sono dunque le affinità di pensiero con l’autore del “De Divitiis” propriamente a riguardo con il tema della ricchezza.
Seneca immagina nelle “Lettere a Lucilio” un’età dell’oro, in cui vigeva la naturale legge del piú forte, identificato con il piú giusto, poiché la fortezza era considerata una facoltà dell’animo e giudicata positivamente. Poi, per il “lento insinuarsi dei vizi”, subentrò la decadenza e nacque la necessità delle leggi; la ricerca di nuovi beni spinse a nuove tecniche per procurarseli. Seneca pone il progresso tecnico-scientifico e la filosofia in contrasto fra loro; il primo porta all’avarizia, la seconda alla felicità.
E nell’opera già citata significativa è la seguente frase: “Credimi, veramente felici furono gli anni, in cui non esistevano ancora né architetti né decoratori”. Quasi a prevedere il lusso sfrenato in cui sarebbe accorsa la civiltà romana Seneca pone in primo piano la moderatezza e la semplicità da seguire durante la vita degli uomini.

One response to “Tolle divitem

  1. Bella recensione. Deve essere uno stimolo per coloro i quali restano ancora "timidi" nello stenderne altre.
    Triad

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