Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia

Novalogos, Anzio-Lavinio (RM) 2018
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Bènèdicte Vidaillet, nel suo libro Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia, edito da Novalogos nel 2018 a cura di Davide Borrelli, compie un’analisi e una critica impietose di coloro che valutano e sono valutati, affrontando la perversa (è proprio il caso di dirlo) dinamica della valutazione da un punto di vista psicanalitico. La Vidaillet, docente di Psicologia dell’organizzazione presso l’Università di Parigi XII, è infatti una psicanalista di indirizzo lacaniano, che prova, coerentemente con tale scuola di pensiero, a impostare la propria analisi a partire dall’innata e irrisolvibile mancanza di Sé, d’identità dell’individuo, il quale non può così fare a meno di cercarla sin dall’infanzia. Per colmare tale vuoto però scopre ben presto che non può che dipendere dal riconoscimento effettuato da parte dell’Altro (punto di partenza delle riflessioni di Lacan sul soggetto): in tale ottica, la valutazione viene interpretata come quello strumento (Altro, esterno al soggetto) che cerca di fornire risposte in tal senso, di colmare il vuoto essenziale della persona, senza però mai riuscirci definitivamente. Anzi, senza in fondo mai volerlo effettivamente colmare.

Secondo la psicanalista infatti, l’intero gioco della valutazione, segnatamente nella sua evoluzione contemporanea ove non esistono più figure detentrici in via esclusiva del potere di valutare, si fonda su tale perpetua mancanza di identità e sull’altrettanto sempiterna esigenza di trovare Sé nel mondo, poiché sarebbe proprio illudendo il soggetto di fornirgli le risposte che brama sulla propria essenza che riesce a tenerlo soggiogato alle sue dinamiche kafkiane in cui, paradossalmente, tutti coloro che cercano la propria identità credono di trovarla, mentre invece la perdono continuamente, in un vero e proprio “caleidoscopio sociale” in cui nessuno può essere sicuro, se non per un fugace momento, della posizione raggiunta né, tanto meno, del ruolo che ricopre.

Inutile dire che ciò, in particolare in ambito lavorativo, ha degli indiscutibili vantaggi per coloro che rivestono ruoli di potere, poiché permette di spostare il destinatario del conflitto e, alla fine, di eliminare ogni conflitto. Come la Vidaillet infatti fa notare, la valutazione promette di rendere a ciascuno quel che gli spetta di diritto senza confrontarsi con chicchessia: essa infatti sostiene di riuscire a riconoscere i «fannulloni» per ciò che sono e a premiare invece chi “si fa un mazzo così” attraverso l’applicazione automatizzata di certi parametri, millantati come oggettivi in forza della loro elaborazione da parte dei cosiddetti “esperti” (a seconda dei casi: di organizzazione del lavoro, di valutazione etc.) con l’obiettivo di rendere il sistema più efficiente in ossequio al dogma della produttività. Se quindi l’applicazione di tali criteri è automatica, ne discende che non è più necessario né discutere con il collega che lavora male, né tanto meno con il capo, apparentemente privato della propria discrezionalità nel riconoscimento dei subordinati, affidata appunto al sistema. Inutile sottolineare come tutto ciò finisca per disaggregare i lavoratori, in perenne competizione fra di loro attraverso un conflitto che è però meramente “virtuale”, spostato com’è sulla stilizzata figura del collega, sempre meno umano e sempre più sagoma, modello da imitare-rivale da battere, con tutte le ripercussioni che tale fenomeno comporta sul piano di lotta sindacale. Non solo, ma la mancanza di confronto fra colleghi, oltre a compromettere qualunque possibilità di lotta collettiva, finisce per avere delle conseguenze anche sulla stessa qualità del lavoro, giacché la naturale spinta a lavorare bene (puntualmente dimostrata nel libro), che porta a discutere con altri lavoratori sui modi di lavorare meglio, viene definitivamente compromessa, contribuendo a demotivare ulteriormente i lavoratori, la cui attenzione è già alienata dalla ricerca di modi per eccellere negli indicatori di qualità piuttosto che per lavorare meglio.

Tali indicatori, infatti, ben poco hanno a che fare con la qualità del lavoro, a dispetto del nome. A sostegno della propria tesi, secondo cui il vero obiettivo della valutazione sarebbe in fondo il controllo sociale più che il riconoscimento oggettivo di meriti e demeriti dei suoi destinatari e il miglioramento del “processo produttivo”, l’Autrice provvede non a caso a fornire numerosi esempi di parametri valutativi impiegati in vari settori, dal tempo di attesa per valutare i capireparto dei pronto soccorso, al numero di articoli pubblicati su riviste per i ricercatori, ai ritmi di produzione per gli operai di fabbrica, che lungi dal migliorare la qualità dei servizi o la produttività aziendale, finiscono spesso e volentieri per essere dannosi, oltre che per la società nel suo complesso (si pensi allo stress cui sono sottoposti coloro che sono oggetto di tali pratiche, con tutte le conseguenze che ne derivano dal punto di vista psicologico-sanitario), addirittura per lo stesso contesto in cui vengono adottati, sia esso una pubblica amministrazione o un’impresa.

Nonostante però la palese inadeguatezza di un sistema che pretende di misurare dati di matrice meramente qualitativa con criteri quantitativi, uscirne sembra impossibile, poiché le «sirene della valutazione» non arrestano il proprio canto, garantendo che tali disallineamenti sono solo una questione di tempo destinata a risolversi con il perfezionamento dei criteri, sicché i lavoratori stessi (cfr. cap. 1), pur riconoscendo nella maggior parte come la valutazione sia la causa del deterioramento dei rapporti fra loro e della loro stessa salute psico-fisica, alla fine non solo non vogliono rinunciarci, ma chiedono a gran voce che ve ne sia di più.

È proprio da questa constatazione che emerge la cifra distintiva della lettura dell’Autrice, impietosa, come si diceva prima, proprio perché non risparmia nemmeno coloro che di tale sistema sono, in ultima analisi, le vittime. È però proprio per questo che appare ancor più condivisibile l’osservazione fatta da Francesca Coin nella Postfazione, poiché un approccio meramente psicanalitico porta a non rilevare quelli che pure sono degli spunti sollevati dalla Vidaillet (cfr. cap. 6): particolarmente significativo appare infatti il rilievo per il quale il sistema valutativo pare affliggere e persuadere soprattutto coloro che non godono di una posizione lavorativa affermata, ma precaria. Non è infatti un caso che la “mancanza” che affligge tutti i soggetti si aggravi e si faccia più pressante soprattutto presso coloro che appartengono ad una classe esclusa da ruoli consolidati, ricoperti invece da coloro che godono di una posizione stabile, per esempio in quanto assunti in un determinato impiego grazie a un concorso e con la carriera ancora fondamentalmente basata sull’anzianità ed il prestigio nella comunità professionale di riferimento: tali soggetti infatti, proprio per il fatto di esser stati già valutati una volta per tutte, si direbbe, con dei risultati destinati a permanere nel tempo (assunzione tramite concorso e, successivamente, carriera basata principalmente sull’anzianità), a differenza dei colleghi più giovani o di coloro la cui reputazione personale è invece perennemente messa in gioco, sono più tranquilli e riescono, spesso silenziosamente ma fermamente, a opporsi al sistema valutativo. Non bisogna d’altronde dimenticare che fra i principali sostenitori del sistema valutativo sono da annoverarsi proprio coloro che auspicano un sovvertimento del mondo lavorativo in cui sono inseriti e che spesso sono giovani, insofferenti a essere soggetti a un’autorità il cui principale merito sembra essere quello di riuscire a perdurare nel tempo, mentre loro sono costretti ad affannarsi in ogni modo possibile per riuscire a guadagnare un minimo di stabilità. In poche parole, non si è dinanzi solo a una mancanza d’essenza, ma a una vera e propria mancanza materiale, il che, come accennavo prima, ci porta appunto a considerare il problema della valutazione come un problema innanzitutto di classe, in linea con l’interpretazione e l’invito forniti dalla Coin.

In definitiva, Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia appare una lettura quasi obbligatoria, sicuramente per intendere correttamente (pur con tutti i limiti di cui sopra) la società neoliberale e post-fordista (i lettori mi perdoneranno per questa l’impiego di termini triti e ritriti), dove la distanza fra dirigenti e subordinati sembra essersi accorciata fino a scomparire, mentre in realtà ha solo trovato nuovi travestimenti per celarsi; ma soprattutto per capire come tale sistema, nel suo essere parassitario e pervasivo, abbia minato alla stessa natura di settori-chiave dello Stato, dall’istruzione, alla sanità, alla Pubblica Amministrazione. Tuttavia, nonostante il taglio pessimistico che sembra scaturire da tale consapevolezza, l’autrice conclude l’opera con delle più che apprezzabili conclusioni, in cui significativamente riporta alcuni esempi di lotta contro il sistema valutativo, dimostrando come non sia ancora stato scritto nulla di definitivo: il libro allora non è affatto un armistizio, una rassegnata resa incondizionata, ma un vero e proprio invito alla lotta.

Comprendere come riuscire a spezzare l’incanto delle «sirene della valutazione» diviene dunque centrale e decisivo per riuscire a costruire un nuovo e diverso immaginario che, in attesa dell’auspicabile abolizione del lavoro, riporti al centro da una parte la professionalità, e dall’altra i lavoratori come comunità, pena la soccombenza dinanzi a coloro che della divisione fra i lavoratori ha sempre guadagnato: è con tale spirito che invito a leggere questo breve ma profondo volume.

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