Sitosophia

L’abbraccio della vita

Questo libro è la viva immagine dell’accademia italiana, con tutti i suoi pregi e difetti. A una solida conoscenza della storia della filosofia fa da pendant un sostanziale addomesticamento del pensiero.
Mi correggo subito: questo libro è l’accademia. Pure se uno dei «sei fra i più noti filosofi del panorama nazionale» non è un accademico in senso stretto (Marcello Veneziani), tutto ciò che dice puzza dell’asfittica chiusa che è la cultura accademica.
Cos’è l’accademia? Il provincialismo delle lettere, l’angustia del pensiero; non nei riferimenti (che certo sono dotti, aggiornati, attuali) ma nei risultati, nella struttura, nelle intenzioni persino. A ben vedere, sarà poi un merito conoscere la storia della filosofia? Con questa ci buscano il pane. Si direbbe che è il minimo sindacale, per quelli come loro. È vero, potrebbero fare di peggio, ossia non conoscerla; ma di certo conoscendola non meritano nessun plauso. Almeno la disimparassero, una buona volta!

Cos’è l’accademia? Fare della filosofia un mestiere. Tanto è vero, che nel primo dei sei saggetti Enrico Berti, tra i tanti motivi elencati per cui «si decide di occuparsi di filosofia» (pag. 9), scorda di dire che tanta gente lo fa per campare, in senso economico, dico; e taluni per camparci anche bene. La filosofia diventa una faccenda ordinaria. C’è bisogno di soldi, e tutto fa brodo. Qual è quell’arte «che permette di salvare la propria vita» (ibidem)? La filosofia, mes amis! Che significa “salvare la propria vita”? Significa «che la vita non deve essere sprecata, non deve essere buttata via, non deve essere resa inutile, ma essere dedicata a qualche cosa per cui in qualche modo valga la pena di vivere» (ibidem). E cosa c’è di meglio che l’insegnamento ben remunerato della storia delle filosofia, all’uopo? Non c’è niente di male, per carità. Ma che si abbia la bontà di dirlo.
Ad ogni modo, tra i motivi che spingono alla filosofia, Berti enumera quelli esistenziali e intellettuali (che giudica agli antipodi, ma che si toccano almeno quando sostiene che dal punto di vista intellettuale ci si chiede il «senso, cosa è giusto fare, cosa non è giusto, che cosa è bene e che cosa è male, cos’è lecito e cosa non lo è», pag. 10), e poi le motivazioni scientifiche, religiose, politiche, culturali.
Ma a parte le puntuali descrizioni o la completezza degli elenchi, già in questo intervento di Berti si nota in filigrana tutto l’addomesticamento a cui è sottoposto il pensiero. Alla fine, il professore dismette i propri panni e si improvvisa filosofo, dicendo di essere sostenitore di una metafisica debole, ossia «una metafisica povera di informazioni, che mi dice pochissimo, mi dice soltanto che il mondo dell’esperienza preso nella sua totalità, non si spiega da sé, non basta a sé stesso, è un problema» (pag. 22). E fino a qui verrebbe anche la tentazione di essere d’accordo, se solo prima non avesse precisato che «la metafisica debole si limita a dirmi che il mondo non ha in sé una spiegazione, ma che una spiegazione deve necessariamente esserci» (ibidem). La domanda, a dispetto di quanto si sostiene, non è: “e allora?”; la domanda da porsi è: perché? Perché deve necessariamente esserci una spiegazione? Chi l’ha detto? Dov’è scritto? Da dove si può dedurre, vedere, capire, intuire? L’onere della prova non spetta a chi sostiene che «nel mondo dell’esperienza c’è la spiegazione di tutto» (ibidem); spetta, piuttosto, proprio a chi afferma che una spiegazione ci deve essere, anche se nel campo trascendente, nell’ambito metafisico.

Il vero problema di questi professori o giornalisti è che si ostinano a combattere il nichilismo. Sarò più accomodante: si ostinano a combattere il nichilismo in nome della trascendenza. Temono lo spettro del nichilismo come un tempo si temeva quello del comunismo. È un’angoscia che serpeggia in pressoché tutti gli interventi, ora in maniera esplicita, ora travestita e dissimulata.
Il deludente saggio di Bodei (dal quale ci si aspetterebbe ben altro) si riduce a una carrellata storico-filosofica su come è stato inteso il desiderio in alcuni tra i maggiori pensatori; la chiusa è ancora più insoddisfacente: tanto dimenarsi tra i pensieri altrui, per poi concludere che dobbiamo regolare i nostri desideri in tempi di crisi e che è una speranza la riscoperta della gentilezza. Deprimente, in tutti i sensi: «Ci troviamo di fronte a questi problemi: il posto fisso non c’è, l’economia è in calo, il welfare state è in crisi. Quando l’acqua arriva più o meno sotto la bocca bisognerebbe, prima di toccare il fondo, darsi una regolata. A quanto pare, non vorrei essere pessimista, ma segnali di grandi cambiamenti se ne vedono pochi» (pag. 45). Stupefacente!

Marcello Veneziani, noto anche perché ha avuto l’idea che forse la specie umana «usi la promozione dell’omosessualità, anche in tv, come una delle astuzie per estinguersi» (ilgiornale.it), crede nel destino. Che si rassegni, allora: sarà destino anche che ci estinguiamo per via degli omosessuali. Solo che lui reputa l’estinzione degli esseri umani come un evento negativo; io no, specialmente se continuiamo ad avere idee tanto brillanti.
Come geniale è l’idea di parlare dell’esistenza di un disegno intelligente a proposito della vita, ma non pronunciarsi «sull’esistenza o meno di un autore di questo disegno, cioè di un Dio» (pag. 56). Sarebbe a dire: vediamo un disegno ma non diciamo che esiste l’autore del disegno; o, se si vuole, abbiamo una serie di omicidi certi, ma non diciamo che esista un omicida.
Guarda caso, Veneziani crede nel destino per scongiurare il nichilismo (cfr. pag. 57), sostenendo che «non dobbiamo tornare indietro e nemmeno andare avanti: dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo scavare oltre la linea del nichilismo, dobbiamo andare più in alto» (ibidem), ossia, daccapo: dobbiamo credere in qualcosa di ultraterreno (come se proprio una tale credenza non fosse la causa del nichilismo; ma questi leggono Nietzsche come leggessero un quotidiano…).

Lo scritto più interessante è quello di Paolo D’Angelo. Chiedendosi quale rapporto si instauri tra arte e vita, ossia tentando di «vedere come l’Arte possa entrare nella vita» (pag. 62), viene esaminata la figura del dandy, riferendosi in particolare al dandy per eccellenza, Lord Brummel. Le quattordici paginette del suo saggio sono davvero gustose e piacevoli. Eppure alla fine si ha come una sensazione di irresolutezza. Si voleva indagare come l’arte possa entrare nella vita; tuttavia, se ne conclude che il dandy non è un artista e che la sua «non è mai una forma, ma sempre soltanto aspirazione alla forma collocata su di un terreno dove non si dà luogo alla forma» (pag. 74). Dunque, delle due l’una: o non si dà vita artistica, ossia l’arte non può entrare nella vita, e questa mi pare una conclusione ben misera e del tutto sbagliata; oppure a essere sbagliata è la scelta di trattare il dandy. Insomma, si vuol capire come l’arte possa entrare nella vita e si prende come esempio una figura che rappresenta proprio una negazione o quantomeno una mera apparenza di questo?
A conclusione del suo scritto, D’Angelo appaia il dandy a un oggetto d’uso, entrando nell’annosa questione del rapporto tra forma e funzione, portando l’esempio di un tostapane o uno spremiagrumi nel quale la forma bella o elegante ne rende impossibile l’uso, tanto da farne non «un bellissimo tostapane o spremiagrumi, ma un tostapane o uno spremiagrumi malriuscito, e la sua forma non sarebbe supremamente bella, ma semplicemente una forma sbagliata. Il dandy è una passione inutile» (pag. 75). Ammesso che la bellezza sia un utilizzabile e che l’arte debba avere uno scopo pratico, non è forse un sintomo dell’epoca economica in cui viviamo il voler rendere ogni passione utile? Ogni profitto, in fondo, è un utile. E d’ogni passione s’approfitta. Ce ne fossero, dunque, di dandy. E poi – ecco un mascheramento – lo scagliarsi contro l’inutilità sembra un modo per ricercare perennemente il senso, a discapito, ancora, della deriva nichilista.

Niente di nuovo sotto il sole in quanto dice Elio Matassi, che dopo una simpatica e breve analisi della musica in Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, finisce con il concludere che, «se credere nella musica coincide col credere nella vita, e credere in quest’ultima ovviamente significa non serrare gli occhi di fronte ad essa, ammettendo i limiti che ne sono connaturati, così riconoscendo gli stessi inevitabili limiti della musica, siamo sulla strada di un’adesione al principio che capovolge il nichilismo, in quanto mito del nulla» (pag. 89).
L’ultimo intervento, di Elena Gagliasso, dovrebbe trattare di “Vita e natura”. Ogni epoca ha inteso con il termine “natura” qualcosa di diverso. Giustamente, quindi, Gagliasso la prende in considerazione come “ambiente”, perché la natura per noi è diventata questa: un ambiente che ci sta attorno e del quale siamo in grado di farne ciò che vogliamo. Ovviamente questa è una pia illusione. Difatti quest’ultimo scritto si risolve in una serie di proclami di politica ambientalista, anche qui, con il timore mai mostrato a viso aperto che il nichilismo possa infine realizzarsi sul piano biologico, ossia che il nostro ambiente non possa essere più ospitale per noi.

Di pari passo con la critica al nichilismo, compare qua e là la volontà di essere filosofi che parlino la lingua della gente comune. Per esempio Berti: «Un filosofo di cui non si capisce niente viene spesso considerato un grande filosofo, perché, se non si capisce niente, vuol dire che lui è molto più intelligente di noi che non riusciamo a capire». A parte che molto spesso quest’ultima affermazione è vera; ma poi da chi è considerato un grande filosofo? E di chi si sta parlando? Berti continua: «Preferisco invece il filosofo chiaro che parli anche delle cose della vita quotidiana, che faccia i conti, per esempio, non solo con l’esperienza nel senso della vita vissuta, ma anche col senso comune» (pag. 23).
È singolare come Veneziani, il giornalista che si professa non accademico, s’incontri anche in questo con l’accademismo, quando dice di affrontare il tema del destino «dal punto di vista filosofico», sì, ma cercando «di praticare quella filosofia non legata soltanto ai circuiti delle accademie, una filosofia, come dire, autoreferenziale che si ferma nel segno e nel senso di una propria auto-professione. Ho cercato di mettere la filosofia nella vita, di portarla per strada, di portarla ad altezza di uomo, di raccontarne la vita e la morte» (pag. 57).
Forse l’errore è a monte; forse l’errore è cercare di risultare comprensibili quando invece la vita non si comprende. Cos’è tutto questo interesse per la vita? Perché mai la filosofia dovrebbe occuparsi di questa vita ed esserne talmente ingorda da non farsela bastare per inventarsene anche una ultraterrena? Forse è una forma di riconoscenza: la filosofia fa campare gli accademici; e loro, come ringraziamento, filosofano sul campare.
Critica del nichilismo, credenza in una forma di vita ultraterrena, linguaggio e concetti alla portata di tutti: ecco l’accademia, ecco il pensiero addomesticato. Se questa è la filosofia della vita, davvero meglio il nulla.

Questo mio scritto è una stroncatura. Stroncare è un’arte; recensire un passatempo. Non avendo tempo, mi sono dato all’arte. Lascio al lettore il giudizio circa il valore artistico di queste righe.
Tuttavia, consiglio il libro a tutti: acquistatelo, ne vale la pena. È quel che dice d’essere: un abbraccio di quella serpe che è la vita. Lo leggano i neofiti, per godere di buone carrellate storiche. Lo leggano gli addetti ai lavori, troveranno pane per i loro denti. Lo leggano i filosofi, morti di fame, ghignando.

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