Sitosophia

Vivere la filosofia

Chi voglia scrivere di filosofia oggigiorno non può fare a meno di utilizzare la parola ‘crisi’. Lo fanno tutti — almeno tutti quelli che contano: Sloterdijk, Žižek, Badiou, Agamben… Ma a guardare bene lo fa pure chiunque per strada o al bar, o perfino la casalinga che parla a dirimpetto, senza per questo che siano filosofi. La crisi è il nostro luogo comune, quasi come l’inferno. Eppure è diverso: la crisi avverte di un decadimento dello stato paradisiaco, ma come di qualcosa ancora in moto, in divenire. Per contro, non si dànno inferi in fieri: sono un punto morto, una meta, sono il luogo più basso. La crisi presuppone che si può sempre continuare a cadere, che si può scendere ancora più giù di qualche gradino. Quando questo movimento s’arresta e non ha più dove decadere, è la catastrofe.

Ma con questo Vivere la filosofia Moreno Montanari ci avverte della propulsione opposta che la crisi può scatenare, ovvero il movimento ascendente — quasi una riconquista del cielo, come propone il primo capitolo di questo libro, ‘Rispondere al cielo’. Un cotanto chiacchierare di crisi in ognidove, non avviene perché siamo tutti esperti di economia o poveri in canna, quanto per il fatto che se la crisi finanziaria attanaglia la vita di ciascuno è perché – sembra suggerire Montanari sulla scorta di Maria Zambrano – è la vita stessa a essere in crisi, dato l’intreccio indissolubile di ogni singolo con quanto accade all’umanità intera.

La crisi di cui si parla già nelle prime pagine del testo consiste nell’impossibilità di trascendersi (cfr. pag. 10), ossia nell’impossibilità di esistere estaticamente (per dirla con Heidegger). Una tale trascendenza è «immanente alla vita e si palesa come la capacità di stabilire delle connessioni con qualcosa di più grande dell’io e di percepirsi come parte di esso» (pag. 11).

Lo scopo del libro, dunque, si configura come un tentativo di indicare una via per recuperare pienamente quella trascendenza e fuoriuscire dalla crisi. Le analisi di Montanari oscillano tra due poli effettivamente del tutto sbilanciati: da una parte il costante riferimento ad autori contemporanei (Foucault, Sloterdijk, Zambrano, Màdera, soprattutto Hadot con i suoi Esercizi spirituali…); dall’altra parte la filosofia antica. Ma il piatto della bilancia pende inesorabilmente dal lato di quest’ultima: i contemporanei sono utilizzati come una sorta di filtro con cui guardare gli esercizi spirituali antichi, perché è “sperimentato” convincimento dell’autore che «simili esercizi, opportunamente rivisitati e sfrondati di alcune credenze ormai inattuali, possano tuttora assolvere alla medesima funzione e porsi come privilegiata esperienza di senso» (pag. 16).

Ora, chi ha percorso appena un po’ i sentieri filosofici – interrotti o meno che siano –, potrebbe giustamente chiedersi se non ci si trovi davanti all’ennesimo tentativo di dire che la filosofia non è inutile come si crede, che ha uno scopo, che non è mera astrazione, lavoricchio autoreferenziale e accademico, che è applicabile alla vita di tutti i giorni. C’è ancora bisogno di rispondere a dubbi del genere, di perdere tempo a stilare prontuari di amabile e innocua filosofia del quotidiano? Il fatto stesso che la filosofia debba giustificare la propria esistenza, non pone un problema di legittimazione?

Non è a questo che risponde lo scritto di Montanari. Saltando a piè pari – vivaddio – tale imbarazzante questione, l’intento dell’autore è piuttosto quello di fornire gli strumenti essenziali che potrebbero fare applicare la filosofia alla vita. Per fare questo, come dicevamo, ci si rivolge principalmente alla filosofia antica, soprattutto al pensiero socratico-platonico, aristotelico e stoico. Se dovessimo indicare brevemente il pregio maggiore di questo libro, è quello di fornire un’utile introduzione a chi voglia intendere la filosofia come pratica di vita sulla scorta delle esperienze della consulenza filosofica. In effetti salta subito all’occhio questo tipo di approccio, e non a caso: Montanari è analista biografico ad orientamento filosofico e consulente filosofico.

La formulazione più chiara delle intenzioni che percorrono il testo è quella per cui, assumendo la filosofia a stile di vita, «non si tratta di adottare semplicemente un mero cambio di mentalità, bensì determinarsi a vivere secondo questo principio perseguito con un personale impegno costante che parte da sé ma mira a trascendersi in una dimensione sovraindividuale» (pag. 117).

Lo stesso concetto è ribadito qualche pagina dopo, quasi alla fine del libro, dove è precisato ancora che per realizzare l’ideale filosofico di una vita rivolta alla saggezza, che lotta per la giustizia e guidata dalla verità, «non bastano […] né un semplice cambio di mentalità, né un mero atto volontaristico: serve un costante e consapevole esercizio etico e culturale» (pag. 120).

Per cercare di calare una dottrina nella vita, Montanari riporta un esercizio proposto dal suo maestro Romano Màdera e che lui stesso dice di praticare da anni, ossia una lectio philosophica (nome chiaramente derivato dalla lectio divina). L’esercizio è composto di otto passi, che così possiamo riassumere: 1) scelta e lettura o trascrizione di un brano capace di favorire un’interrogazione sul proprio modo di essere; 2) contestualizzazione del brano; 3) fare in modo che il brano “legga in noi”; 4) esaminare il brano alla luce della nostra esperienza personale; 5) disputa interiore che soppesa gli elementi negativi e positivi del brano; 6) focalizzare l’attenzione sui passi ritenuti più interessanti; 7) chiedersi cosa è possibile applicare alla nostra vita; 8) pensare a come attuare concretamente l’insegnamento tratto dal brano (per questi punti, cfr. pag. 73).

Ad ogni modo, lungo i sei capitoli sono riportate e analizzate come esempio diverse figure e prospettive, da Socrate alla saggezza stoica, passando per Aristotele e i pitagorici. L’elemento fondamentale, il fil rouge che tiene assieme tutto il discorso, è la stretta aderenza tra la dottrina e la vita, tra teoria e prassi, fino al raggiungimento della parresia, vale a dire della condizione per cui ciò che qualcuno dice è degno di riconoscimento e interesse perché chi lo dice attesta con la propria vita la verità della dottrina. Emblema di questa condizione è Socrate, un individuo che è a contatto con la verità, espressione che indica «una relazione di partecipazione, d’intimità e di affinità e non di possesso perché la verità, proprio come l’amore, non è possesso di nessuno: entrambi si ricercano, si sperimentano come esperienza di riconoscimento, si vivono e si testimoniano con il loro proprio modo di essere, che ne esce rinnovato dalla loro forza maieutica che è la forza della trascendenza» (pag. 54).

Particolarmente interessante è l’ultimo capitolo, che possiamo definire quasi un’apologia della speranza, sentimento tanto spesso bistrattato, ma che Montanari difende a spada tratta, considerandolo come l’unico in grado di non farci fossilizzare nel presente e che ci consente di cogliere la continuità temporale tra passato, presente e futuro, per scuoterci dal torpore che ci vuole determinati solo dal contesto socio-economico, senza alcuna possibilità di cambiare in meglio le nostre condizioni di vita.

Non bastasse questo, addirittura la speranza viene quasi identificata con la filosofia o in ogni caso ritenuta molto affine a questa, «con la quale condivide anche la particolare capacità di vivere la crisi come un’opportunità, certo amara e a volte persino tragica, ma ad ogni modo feconda» (pag. 114).

È per questo che la conclusione del libro ne riassume tutto il contenuto con una tonalità speranzosa ma coi piedi ben piantati per terra, perché – dice – «la speranza c’insegnerà a guardare la realtà alla luce della verità, l’etica a sentirci corresponsabili dello stato delle cose e a non considerarlo inevitabile, la cultura a pensare a un suo diverso e possibile sviluppo e la filosofia a trasformare tutto questo in una maniera di vivere» (pag. 121).

Certo, il libro di Montanari non è esente da difetti. Ne potremmo rintracciare numerosi, il maggiore dei quali è un certo citazionismo esasperato. Non ci dovremmo stupire se, a conti fatti, circa metà del libro fosse costituita da citazioni, buona parte delle quali interessanti; ma, pur nella brevità del saggio (121 pagine, che salgono a 139 includendo le note), alla lunga stancano, rendono la lettura incespicante, vuoi per il continuo andare e venire da una pagina all’altra, vuoi perché ogni tanto ci si raccapezza male e si corre il rischio di non comprendere chi dica cosa.

Potremmo anche dire che – pur comprendendo l’intento introduttivo del libro – molti nodi teoretici rimangono irrisolti: non si spiega come si intenda l’anima, la trascendenza è immanente ma non si capisce bene come e perché, la crisi è accennata ma non spiegata, sembra serpeggiare qua e là una certa dose di ‘politicamente corretto’… Per non dire che la saggezza filosofica risulta alla fine quasi depotenziata, come se non avesse condotto a morte certa un mucchio di persone o non avesse sovvertito il quieto vivere di quella quotidianità a cui si vorrebbe applicare.

Per racchiudere le mie critiche in una sola parola, è lo stile che difetta al libro e, a voler essere beffardi, ci potrebbe scappare di bocca che, per inscrivere la verità nell’anima di chi scrive (cfr. pag. 65), cioè per vivere la filosofia, — lo stile è tutto.

Eppure questo libro ha un indiscutibile pregio: staccarsi dalla lettera morta, dalle muffite lapidi accademiche, dalle fanfaluche di chi parla cattedraticamente a vanvera, dai sepolcri imbiancati dei filosofi di professione. Se c’è una verità filosofica — è una verità che permea chi la scorge: solo per questo può incidersi nelle carni di chi la vive; solo per questo si può rivelare una kierkegaardiana malattia mortale e ripetere costantemente il suo tanto più lugubre quanto più vero memento mori.

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