Filosofia di Fantozzi

Il Nuovo Melangolo, Genova 2022
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Fantozzi rappresenta la maschera definitiva della società contemporanea. Tutti siamo, saremo o siamo stati Fantozzi, almeno una volta nella vita. Se la grande comicità, quella che per essere tale deve svelare anche il tragico di ogni esistenza – o dell’esistenza in sé stessa –, per farne ridere e metterla amaramente alla berlina, è caratterizzata dal mostrare sia un aspetto eterno dell’animo umano, sia questo animo umano calato in una contingenza storica e sociale, allora Fantozzi più di ogni altro personaggio è l’incarnazione perfetta e compiuta dell’uomo contemporaneo, del tragicomico ruolo dell’individuo nella società capitalistica di massa. Jünger ci aveva già avvertiti nell’anno fatale del 1932 che la forma dell’essere umano avrebbe assunto la veste dell’arbeiter, ossia dell’essere umano la cui vita è totalmente permeata dalla forma del lavoro. Nella società contemporanea non esistono più individuo, esiste soltanto il lavoratore, i cui ritmi sono scanditi dal lavoro, i cui passatempi sono decisi dall’organizzazione sociale lavorativa, i cui gusti sono improntati alla dinamica spicciola del consumo: tutti elementi presenti e paradigmatici in Fantozzi.

Le maschere comiche più note e riuscite da poco più di un secolo a questa parte, praticamente dall’avvento della cinematografia in poi, per esempio Charlot e le diverse e sfumate incarnazioni di Totò, ci hanno presentato degli aspetti singolari, sebbene straordinariamente comici e poetici, che probabilmente non hanno incarnato appieno la totalità che invece rappresenta il personaggio Fantozzi. Semplificando potremmo dire che qualche individuo particolare potrebbe essere un delicato e romantico vagabondo, un ingegnoso poveraccio che con la battuta pronta e la sfrontatezza può anche permettersi di aggirare o addirittura sfidare il potere, suscitando appunto, tra romanticismo e sfida, un sentimento poetico. Fantozzi invece si presenta da una parte come assolutamente privo di poesia (goffo e vano il tentativo di approccio poetico con la signorina Silvani), mentre dall’altra riguarda assolutamente tutti gli esseri umani nel loro rapporto con il potere, che assume appunto la forma del lavoro, il quale non è che, ridotto all’osso, una specie del tutto particolare dell’esercizio del potere gerarchico.

Stefano Scrima, col suo libro, ci offre una lettura filosofica del personaggio sulla scorta principalmente delle opere cinematografiche ma per interpretare le quali non esita a ricorrere ai libri e alle interviste di Villaggio. Ne riesce un libro che, pur nella brevità, ci offre uno sguardo completo, capace di inquadrare le pulsioni e le frustrazioni profonde che animano le azioni e le passioni del ragioniere. Ciò ci consente di adottare due prospettive molto interessanti. La prima è che Villaggio stesso, come noi tutti del resto, è fantozziano, sia perché in fabbrica ci ha lavorato davvero e ne ha conosciuto le feroci dinamiche, sia perché viene – con una certa consapevolezza – inglobato dal sistema consumistico che lo porta a sfornare una serie di film giusto per fare cassa, contravvenendo ai motivi ideologici che lo avevano spinto alla critica di quel sistema di cui si trova inevitabilmente a fare parte — ancora una volta come tutti noi. La seconda è che Fantozzi ne risulta stratificato: non è solo l’umile, umiliato e servizievole impiegato vessato da colleghi, superiori e megadirettori; è anche un individuo uguale agli altri, che non perderebbe occasione di tradire la moglie se solo ne avesse l’opportunità e che di fatto si comporta con altri impiegati più deboli come i più forti si comportano con lui. Insomma, Fantozzi può suscitare pure un’umana simpatica, muovendoci a una tragicomica compassione, per le angherie che subisce e alle quali molto spesso non tenta nemmeno di reagire; ma d’altro canto è una merdaccia sia nel più comune senso passivo – trattato così dai più forti –, sia in senso attivo, perché tratta da merdacce i più deboli e, in fondo, vorrebbe essere come coloro che sono collocati sui gradini più alti della scala sociale.

Non a caso il penultimo capitolo, probabilmente il più significativo, capace di illuminare il carattere di Fantozzi, si intitola eloquentemente Elogio dell’invidia. È l’invidia che muove il ragioniere. Egli non vuole combattere il sistema in un nome di una società più giusta. Vorrebbe soltanto sostituirsi ai superiore, vorrebbe soltanto, in ultima istanza, prendere il posto del megadirettore galattico. E tuttavia proprio l’invidia costituisce almeno una parvenza di riscatto, un estremo tentativo di mostrarsi per una volta non ipocriti, sinceri fino al midollo. L’invidia è stata a lungo demonizzata soprattutto dalla morale cristiana (cfr. pag. 119), ma secondo Villaggio, citato da Scrima, «l’invidia è un sentimento nobile, il più naturale dell’animo umano» (citato a pag. 116). Il miracolo del dichiararsi invidiosi sarà quello di eliminare l’ipocrisia trionfante soprattutto nella società capitalistica e rende l’individuo meno morbosamente attaccato a ideali e superstizioni. Sarà difficile, afferma ancora Scrima, trovare un uomo che si dichiara consapevolmente invidioso «fra i fanatici, i manichei, i benpensanti, gli ipocriti, i servili, i mediocri, i leoni da tastiera. E scusate se è poco» (pag. 121).

Forse è in questa sfrontata e onestissima ammissione, quella del provare ed esibire invidia, che Scrima riesce pienamente a mostrare come Fantozzi e Villaggio si identifichino definitivamente; o come in ultima analisi ci identifichiamo tutti nel nostro vivere consumistico quotidiano.

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