Il cervello del XXI secolo

Codice edizioni, 2005. Trad. di Elisa Faravelli; ediz. speciale per «Le Scienze», n. 469/2007, pp. VIII-397
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Il cervello non è un organo unico e monocorde ma rappresenta un insieme plastico e variegato di strutture, «un insieme di processi dinamici, parzialmente correlati e parzialmente indipendenti» (p. 7). Legato all’intera corporeità vivente, esso interagisce costantemente con il mondo, con l’insieme di stimoli, di colori, odori, suoni, forme ed eventi che la corporeità percepisce e al quale il cervello insieme a tutto il corpo cerca di dare un significato unitario e coerente. Infatti, conferma Steven Rose, «i cervelli e i corpi sono sistemi aperti, non chiusi, in costante interazione con il mondo materiale, biologico e sociale esterno» (p. 206).

La coscienza è anche il dinamismo ininterrotto del corpo/mondo, il continuo e complesso legame dei neuroni, delle sinapsi, delle cellule gliali con tutta la corporeità immersa nel passato, coinvolta nel presente, rivolta al futuro. La coscienza è dunque la percezione che il corpo ha di se stesso come flusso temporale, è la relazione tra il corpo e gli eventi. Proprio per questo legame intrinseco col tempo che essa stessa è, la coscienza/mente è intrisa di emozioni, le quali costituiscono la reazione immediata del corpo agli stimoli che vengono offerti dall’ambiente e dall’intera realtà. Anche sulla scorta delle categorie esplicative di Damasio e dell’importanza da questi attribuita alle emozioni, Rose ritiene che esse siano uno degli aspetti caratterizzanti il cervello umano, tanto che «per comprendere l’evoluzione dei cervelli e del comportamento e l’emergenza dell’umanità, dobbiamo come minimo insistere su emotio, ergo sum» (p. 69).

Insieme alle percezioni e alle emozioni, l’identità della mente/cervello è costituita dalla memoria, anch’essa dinamica e molteplice, non una struttura ma una funzione che consente ai ricordi di non rimanere «rinchiusi all’interno di qualche deposito stabile» e di distribuirsi in modo diffuso nell’intera massa cerebrale e anche oltre essa (p. 200). La memoria esiste, infatti, nell’atto stesso del ricordare, non prima o dopo di esso; il ricordare è «un evento attivo, non passivo, e attinge a una varietà di processi cognitivi ed emotivi» (p. 203).

Una simile complessità non può essere compresa –e dunque nemmeno curata– da una scienza riduzionistica, parcellizzante, puramente organicistica invece che integralmente corporea. Al riduzionismo, Rose contrappone l’autopoiesi di Maturana e Varela come modalità assai più plausibile di evoluzione e costruzione del cervello. Criticando quelle che definisce «le assunzioni implicite della mia disciplina» -e cioè delle neuroscienze- l’Autore scrive che

la mente è più vasta del cervello. I processi mentali e coscienti –insisterò opponendomi a gran parte della filosofia contemporanea- sono essi stessi proprietà evolute e funzionalmente adattative essenziali per la sopravvivenza umana: non sono scesi dal cielo e nemmeno sono proprietà addizionali prive di funzione, conseguenze epifenomeniche del possesso di grandi cervelli che non hanno di per sé un potere causale. Giungerò a tale conclusione seguendo una via interamente materialistica (p. 108).

È in brani come questo che Rose mostra, in realtà, una grave ingenuità filosofica. Che la mente si riduca al cervello non è, infatti, la filosofia a sostenerlo ma i suoi avversari scientisti e i filosofi che nutrono un complesso di inferiorità epistemologico verso le scienze dure. E, più in generale, le molte tesi e argomentazioni pur condivisibili di questo libro sono spesso invalidate da un pregiudizio antifilosofico che deriva da una ignoranza quasi rivendicata della filosofia stessa, ridotta a semplice “elucubrazione”. Rose insiste giustamente sulla necessità di superare antiche dicotomie come natura/cultura, mente/corpo, geni/apprendimento ma a tentare questo oltrepassamento è proprio la più avvertita riflessione filosofica, sono quei biologi le cui indagini sono aperte a essa e si avvalgono dei suoi risultati. Rose, invece, non cita mai scienziati del comportamento come Konrad Lorenz o Irenäus Eibl-Eibesfeldt e formula critiche durissime nei confronti di studiosi di confine come Edward Wilson e Steven Pinker. Un disprezzo per la filosofia che lo fa cadere sia in truismi che in contraddizioni. Una delle più evidenti è l’assunto generale –e naturalmente corretto- secondo cui «non esiste alcun albero della vita con gli esseri umani collocati sul ramo più alto; nessuna scala naturae, nessun superiore o inferiore, nessun più o meno primitivo» (p. 27), che però viene poi coniugato con una rivendicazione costante della unicità dell’essere umano che sarebbe frutto del suo libero arbitrio e della sua capacità di emergere dalla natura distanziandosi da essa. Rose ricade così in pieno nel dualismo natura/cultura e non offre, in realtà, argomenti generali contro il determinismo, il cui significato filosofico liquida con espressioni piuttosto rozze come le seguenti: «ho cercato di spiegare perché –sebbene io consideri i dibattiti sui cosiddetti “libero arbitrio” e “determinismo” come peculiari aberrazioni della tradizione filosofica occidentale- come esseri umani noi siamo radicalmente indeterminati; vivendo interfacciati con molteplici determinismi diventiamo cioè liberi di costruire il nostro futuro anche se in circostanze che non abbiamo scelto noi» (pp. 379-380). Strana logica davvero, quella per la quale il legame con molteplici realtà di un certo tipo generi una conseguenza di tipo completamente opposto.
Molte altre affermazioni e tesi sono, invece, meglio argomentate e sicuramente più corrispondenti alla realtà delle cose. L’Autore critica la pretesa di molti suoi colleghi di spiegare la coscienza umana tramite le tecnologie di scansione del cervello; mostra in modo efficace quanto psichiatria e psicologia siano delle pseudo-scienze (come gli esperimenti di David Rosenhan nel 1973 e di Lauren Slater nel 2003 hanno confermato); denuncia una delle conseguenze più gravi del panpsicologismo di cui le società “avanzate” sono pervase, e cioè la «crescente tendenza a medicalizzare l’angoscia sociale», la tristezza interiore, la condizione umana in quanto tale «e ad etichettare l’infelicità come uno stato patologico da correggere mediante intervento medico, che sia attraverso l’uso di farmaci o di altre forme di terapia» (p. 356), farmaci la cui pericolosità è più volte denunciata da Rose1.

Pur critico sugli sviluppi futuri delle nanotecnologie, dell’ingegneria genetica, della robotica, il libro è lucido nel descriverne le modalità:

Una delle conseguenze di tali sviluppi, già comparsa in forma embrionale, è la graduale fusione di reale e virtuale. (…) Una tale fusione, un tale cambiamento nell’equilibrio degli input sensoriali e delle attività motorie colpirà inevitabilmente, in maniera diretta e in misura apprezzabile, anche le strutture cerebrali. La plasticità del cervello, specialmente durante lo sviluppo, implica che le funzioni esercitate intensamente occupino un maggiore spazio cerebrale e che quello corrispondente alle funzioni relativamente trascurate sia proporzionalmente ridotto. (…) Ciò a cui stiamo assistendo è l’integrazione di un certo numero di tecnologie disparate derivate dalla genetica, dalla neuroscienze e dalle scienze dell’informazione che, separatamente ma in maniera sempre più sinergica, hanno la potenzialità di alterare profondamente non solo la forma delle nostre vite quotidiane e delle società in cui siamo collocati, ma il destino futuro dell’umanità stessa (pp. 373-374).

Dove l’Autore coglie molto bene la peculiarità della mente/cervello è nel caratterizzarne il luogo specifico come spazio del significato, come semantica: «le nostre menti lavorano con il significato, non con l’informazione» (p. 259) e l’informazione stessa «è vuota senza un sistema in grado di interpretarla, di darle un significato» (p. 69). La dimensione semantica si esplica sia al livello della memoria –«le memorie biologiche sono significati viventi, non vuote informazioni» (p. 202)- che a quello di base dei neuroni: «le stesse immagini evocano differenti risposte nella corteccia visiva a seconda del contesto in cui devono essere valutate. La corteccia non si limita a ricevere gli input ma è attivamente coinvolta nell’interpretazione del contesto, nella trasformazione dell’input in percezione» (p. 195).

Quello di Rose è dunque un testo con molti elementi interessanti, che presenta delle tesi chiaramente filosofiche senza però poterle sviluppare e motivare adeguatamente proprio a causa del pregiudiziale rifiuto della filosofia. È, inoltre, un libro squilibrato nelle sue parti e spesso ripetitivo. C’è di meglio, insomma, per introdursi alle scienze della mente/cervello ma rimane significativo e molto positivo che un neurobiologo esplicitamente materialista esprima tutta la sua insofferenza scientifica verso le diverse forme di riduzionismo.

1 Che è soprattutto un biochimico e quindi sa di che cosa parla quando affronta questo argomento: «introdurre una nuova sostanza chimica nel corpo equivale a lanciare una mina vagante che potrebbe produrre effetti molteplici –sia desiderati sia indesiderati- su molti sistemi enzimatici e cellulari» (p. 289). Non solo: «qualsiasi incremento futuro nel potere di controllare e manipolare proverrà in gran parte dall’industria farmaceutica» (p. 362). Più in generale, Rose è giustamente assai critico nel confronti della tendenza a utilizzare le neurotecnologie in ambito militare e di controllo sociale, fino a denunciare in modo esplicito l’«accresciuta atmosfera di terrore e repressione che ha dominato gli Stati Uniti, e in misura inferiore i paesi europei, dopo l’11 settembre 2001» (p. 340).

9 responses to “Il cervello del XXI secolo

  1. Come sai, caro Alberto, sono sempre interessato a quello che scrivi, e come frequentatore di Sitosophia non poteva sfuggirmi la bella, importante recensione al testo di Rose. L’occasione mi pare propizia non per le darrighiane “due parolette”, sta tranquillo, ma per una impressione 'a freddo'. Mi colpisce sempre, in questi autori, quella loro caratteristica preoccupazione di associare la positività e plausibilità di una nozione al senso dell’apertura e della duttilità, al senso della ergonomia. Dilaga in queste carte anglosassoni la sindrome della ergonomia del pensiero. Come se un concetto dovesse riuscire comodo al pari di una chaise-longue di Le Corbusier. Così, per es., Rose s’impegna subito a definire il cervello un sistema aperto (ma ricordo ai non vedenti che das Offene è temibile nozione heideggeriana) e la mente, per soprammercato, si presenta ancora più aperta, come un attico di 300 mq. a petto dei nostri miseri appartamenti di dipendenti statali. Strana faccenda. Strana perché un concetto non è una casa, ma una cosa. E nella cosa entri a tuo rischio e pericolo. Kant, l’ultimo scolastico d’Occidente, fondatore e affondatore della famigerata epistemologia, se ne tenne ben lontano e lanciò il suo Ding an sich a distanze cosmiche. La faccenda m’incuriosisce ancora di più se penso a una notizia battuta dall’Ansa appena un mese fa e diligentemente registrata nelle mie remotissime Cronache terrestri. Ecco il fatto. Nel 2003 un paziente di Marsiglia viene ricoverato in ospedale con una diagnosi di idrocefalia; il cervello si presenta letteralmente compresso sulla parete della scatola cranica e le sue dimensioni sono ridotte al minimo. Nonostante ciò, assicura il neurologo Lionel Feuillet (quasi un collega di Rose), “l’uomo riesce a condurre una vita normale”. È un apologo delizioso. Proviamo a riderci sopra: questo cervello ridotto alle dimensioni di una palla da tennis è un caso concreto di ‘riduzionismo’. Eppure, malgrado la pressione delle acque endocraniche, una specie di diluvio universale in sedicesimo, la mente continua a svolgere le sue funzioni in tutta tranquillità. Anzi, diciamolo pure, se ne fotte. Ma come può essere? Io non ne capisco granché e mi vien fatto di pensare solo a due spiegazioni. O la mente è come la merce di cui parla Karl Marx nella celebre pagina, cioè “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, e in questo caso, per saperne di più, dovremmo richiamare in servizio ogni sorta di ‘cani morti’ (neoplatonici, spiritualisti, bioetici ecc.); oppure la mente rimane oggetto di limpida scienza, sì, ma a condizione di recidere tutti, dico tutti, i supposti rapporti col cervello. Vado di corsa: il cervello è reale, la mente è reale. Ebbene due realtà o positività, proprio perché tali, non possono avere rapporti l’una con l’altra. Esse intrattengono al più un rapporto paritetico, o sia di indifferenza. Ma l’indifferenza è precisamente la mancanza di rapporti. Nel fatto, se c’è un rapporto, c’è una dipendenza, e questo significa che una delle due cose in rapporto è più reale dell’altra. Questa eccedenza di realtà, comunque la si voglia intendere, a favore della mente o del cervello, denuncia l’intenzione metafisica. Ne derivano problemi anzitutto politici. Tutto il quadro teorico delle neuroscienze è, se mi passi l’espressione, più vecchio del cucco; inedito e inquietante (perché ‘imperiale’) è invece il modo in cui esse assecondano la piegatura politica dei concetti in gioco. Ma basta così; magari ne riparleremo in un prossimo seminario. Intanto ti rinnovo i miei complimenti. Vale — Giuseppe Raciti.

  2. Che commento denso, ricco di spunti ed anche divertente, quello del Prof. Raciti.

    Però mi chiedo: oltre a quell’ “aut-aut” ipotizzato dal Prof. Raciti (fantastico il riferimento ai “bioetici”!), non potrebbe esserci un altra spiegazione? Forse è fin troppo semplicistica, ma io la butto quì: l’attività mentale del paziente francese è rimasta del tutto (o quasi) normale perché il cervello (organo di cui ancora poco conosciamo, checchè ne dicano quei neuroscienziati che si esaltano di fronte ad ogni risultato della neuroimmagine funzionale) ha mostrato una fortissima capacità d’adattamento.

    risonanza
    Risonanza magnetica del paziente “microcefalo”

    Questa ipotesi è più chiara di fronte al fatto che l’episodio di idrocefalia è avvenuto quando il paziente aveva sei anni, ed è stato subito sottoposto ad intervento. Il cervello ha avuto tutto il tempo di esprimere una sua ben nota (ma fino a poco tempo fa sconosciuta) caratteristica: la plasticità.

    E la mente?
    Il problema è che, del cervello straordinario del paziente francese, sembra essere cambiata la forma, non il contenuto. Ecco, secondo me non è così, è proprio il contrario: è la dimensione del contenuto ad essere cambiata, ma non la sua forma. E la sua forma è forma mentis. Inoltre, prima ho detto che il cervello ha avuto il tempo di adattarsi: credo (da studente del Prof. Biuso) che quel tempo sia la mente.

    Così facendo, la lotta di “realtà” tra mente e cervello potrebbe tornare pari.

    Giovanni Polimeni

  3. Caro Giovanni, sempre di corsa. (Ho scoperto che correre è meglio che discorrere.) La pallina transalpina si è adattata — a cosa? Al ni-ente della vita sociale, normale? Ha impiegato volumi di tempo mentale, ha esibito plastico talento per votare — Sarkozy? E se la lotta tra realtà, come dice Lei, torna pari, che lotta è? Parità è spassionata indifferenza, assenza di rapporto. Pace. C’è lotta, guerra, quando non tutto il reale è reale, quando si addita, in un punto, qualcosa d’irreale (il negativo), cioè qualcosa da assoggettare. Dalla mia prospettiva, forse trascurabile, mente e cervello sono enti autonomi, irrelati. Sono enti reali. Solo l’intenzione metafisica, politicamente interessata, li mette in rapporto e affibbia a uno dei due termini il ruolo del negativo. Un’ultima cosa. Mi prenoto per una tac, e in sala d’attesa inganno il tempo mentale (dunque non m’adatto) sfogliando Critica e clinica. Vale, R.

  4. Caro Giuseppe, rifletto su questo densissimo e serissimo (nella lievità del tono) commento alla recensione.
    L'ho scoperto soltanto adesso su segnalazione nel forum del nostro Giovanni.
    Ti sono davvero grato per aver voluto arricchire le mie poche cartelle critiche (o cliniche?) con i tuoi pensieri.

    Non posso condividere il dualismo che -se leggo bene, ma sicuro non sono- traspare dai tuoi (ac)cenni: "mente e cervello sono enti autonomi, irrelati. Sono enti reali".
    Ma c'è (almeno) un senso in cui questo è vero, il senso spinoziano degli attributi dell'unica -comunque- sostanza.
    Hai proprio ragione: anche le neuroscienze sono metafisiche mascherate. E hai ragione su tutto il resto.

    Un nuovo seminario su queste e altre simili questioni fondanti e antiche sarebbe per me e per i nostri amici studenti un'occasione imperdibile. Intanto, continuiamo a contrastare le modalità imperiali delle scienze dure e soprattutto di quanti ne favoriscono l'invasione dall'interno del territorio filosofico.
    Per fortuna c'è pure chi, come Damasio, percorre il cammino inverso o chi comprende che lo sguardo fenomenologico è alla fine (e dunque all'inizio) il più acuto per scorgere della mente ciò che può essere visto e pensato.
    Un saluto grato.

  5. Commento sui commenti.
    Il "monismo anomalo" sembra una prospettiva cara al Prof. Biuso, quando ricorre a Spinoza per superare l'irrelazione tra i due reali coi quali il Prof. Raciti dis-corre. Penso tuttavia che la nozione di "sostanza" (anche spinozianamente intendendola) non possa contenere al suo interno una qualsiasi "irrelazione": ogni indifferenza è una relazione, in fondo.
    Mente e cervello, poi, – e qui la dico grossa – contengono in qualche modo tutto: la cosalità e la sostanza nella prima, l'attività e la "guerra" nel secondo, Ente (in Mente) e Bellum (in Cerebellum).
    Scherzi (?) a parte, sarebbe davvero bello se "Sitosophia" – coi docenti più accorti – riuscisse a realizzare "un nuovo seminario" di cui parla Biuso. Penso che vada proprio organizzato.
    Un saluto.

  6. Torno dai paradisi vacanzieri e trovo un paradiso del pensiero! Che bello! Vi ringrazio tutti! Ma chissà che non siano entrambi paradisi artificiali… Vabbè, ogni paradiso è artificiale, in quanto si propone di ri(pro)durre della natura il solo aspetto della beatitudine.
    In ogni caso, partendo da una domanda parecchio discutibile e non chiara nei suoi sviluppi neanche a me medesimo, potrei chiedere: se la mente facesse a meno della conoscenza del cervello, muterebbe la sua sostanza? Beh, credo, non più di quanto riuscirei a muovere la mia mano senza sapere che le componenti delle dita si chiamano falangi.
    Forse il cervello vive di nominalismo.
    Tuttavia, non vorrei ridurre la mente ad un epifenomeno; già, perché se la mente fosse un epifenomeno allora il cervello cosa sarebbe? Forse l'iponoumeno? Effettivamente questa cosa opaca, questa materia grigia pare non manifestarsi alla luce come la mente. Non ha nulla della solare immagine parmenidea del pensiero. Sembra quasi una scatola nera che registra tutto, ma racchiude in sé, più che l'autopoiesi, l'autodistruzione. La slogatura metafisica dalla quale dovremmo riabilitarci è forse ancora una volta il dualismo tra l'eternità della mente e la temporalità (inutile esplicitare: finita) del cervello.
    Il monismo anomalo non è che un monismo animale perché naturale. L'unica sostanza ha questi due (tra gli altri infiniti che non riusciamo a balbettare) attributi, estensione e pensiero. La pace consiste nel rapporto paritetico e perciò dovrebbe escludere l'assoggettamento e la schiavitù. Il pensiero spinozionano, è risaputo, dà una determinazione positiva della pace e perciò non v'è negativo. In questo senso la sostanza è l'Unica, con gli attributi che ne costituiscono l'infinita ricchezza equamente divisa; perciò non si dà gerarchia. Summa summarum: l'Unica e le sue proprietà.
    A presto.
    Cateno Tempio.

  7. Espungere il negativo da Spinoza è della stessa portata che non farlo con il fascismo in Nietsche, entrambe valgono la cauterizzazione del vano orale e grafico in chi le commette.
    Mi duole meno l'annaspare di certi biologi sulla funzionalità del cervello ( è solo una timidezza topologica, non è il caso d'incazzarsi) che gli ortonoematici sbicchieramenti parahusserliani su Mente-catti e Erinni-rung.
    Se un'intera falda dell'occidua filosofia s'era impegolata a corporeizzare l'anima, non da meno è chi , oggi, animizza il corpo vanificando il solo unico prudente approccio che di esso, noi post-freudiani, possiamo avere: il corpo come inciampo immaginario dell'impossibilità "urgente" di farlo godere.

  8. Vi mando questo racconto, consapevole che la famosa frase di William Shakespeare:

    “Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia……………………”

    rimane tuttora sublime nel ricondurre tutte le nostre speculazioni
    sulla natura, sulla mente sulla coscienza,a fanciulleschi tentativi di travasare l’oceano sterminato dell’esistenza con un colino da tè dentro la nostra piccina zucca .

    Quindi sono figlio vostro

    “Questo è il treno per Bari-Lecce?”
    “Sì,sì”.
    L’uomo con gli occhiali dalla montatura esilissima gli era parso una persona gentile e pur avendo l’aria d’una persona colta, emanava spontaneità.
    Lui era certamente più giovane, forse di una decina d’anni, e se l’impressione era giusta quel viaggiatore doveva aver appena passato la metà fra i trenta e i quaranta.
    Tre minuti dopo quella domanda porta in modo gentile, i due si trovavano nello stesso scompartimento diretti verso la stessa città, anche se con diversa destinazione finale.
    Tutti e due immersi nei loro pensieri, pensieri generati dalle loro menti, quindi
    in linea di principio pensieri che un giorno, forse si sarebbero potuti leggere con qualche
    apparecchiatura di qualche tipo.Leggere nel senso letterale del termine.
    Nunzio Santilli vide che il suo compagno di viaggio s’era alzato per prendere qualcosa dal proprio bagaglio e notò che era un libro.
    Il libro cadde dalle mani del gentile sconosciuto e Nunzio fu lesto a raccoglierlo e darglierlo
    non prima di averne sbirciato il titolo.
    Era un titolo un pò vecchiotto, di una quindicina d’anni prima, ma Nunzio se lo ricordava benissimo perchè quel tomo, scritto da un premio Nobel, un certo Gerard Edelman lui aveva cercato di leggerlo ma all’epoca gli era risultato un pò troppo difficile.
    “E’il presente ricordato?”
    “Come?”
    “E’il presente ricordato?”
    “Ah, sì, lo conosce?”
    “Sì ma non l’ho letto del tutto perchè allora avevo diciassette anni e lo trovai un pò”……
    “Un pò indigesto, vero?”
    “Esattamente”.
    Lo sguardo dietro la montatura sembrava invitare Nunzio alla conversazione.
    “Quindi lei a diciassette anni cercava di leggere libri del genere?”
    “Sì, ma non ci riuscii,”
    “Lo credo bene, non ci sarei riuscito neanch’io a quell’età.
    L’ho appena finito, ma voglio dargli una ripassata perchè è veramente una pietra miliare nello studio della coscienza.Lei studia?”
    “Io, mi sono appena laureato in biochimica, ma sto pensando di proseguire in un altro campo.”
    “In quale campo, se non sono indiscreto?”
    “Le reti neurali, quelle reti fatte di”…
    “Ho presente, ho fatto degli studi al CERN di recente che spero di utilizzare nel mio lavoro”.
    A Nunzio non pareva vero di avere di fronte un ricercatore del mitico CERN di Ginevra.
    “Allora lei lavora al CERN?”
    “Ora collaboro, ma ci ho lavorato per sette anni.”
    “E che cosa faceva esattamente? Se me lo può dire s’intende”.
    “Ma certo non c’è nessun segreto.Studiavo algoritmi per provare l’efficienza di altri algoritmi, in poche parole quando si devono fare molti calcoli e molto complessi non si può perdere tempo con
    procedure di calcolo inefficienti, sopratutto quando si usano computer che costano un sacco di soldi e questi soldi sono soldi pubblici.E quindi bisogna trovare tutti i trucchi possibili per fare i calcoli alla svelta ma senza sbagliare.Ho reso l’idea?” “Benissimo, quindi lei è un ingegnere informatico?”
    “Sì, ma diamoci del tu se vuole, Filippo Ansaldi”.
    “Nunzio Santilli, e, e allora lei, tu, ti intenti di reti neurali?”
    “Mi intendo, ….so un pò di cose al riguardo ma di queste cose non se se sa mai abbastanza”.
    “E l’efficienza di questi algoritmi che dovrebbero stabilire quella degli altri come si mette alla prova?”
    “Con le preghiere alla Madonna”.
    Otto ore di viaggio sono lunghe ma se di queste se ne passano la metà a parlare di argomenti
    che derivano dalle proprie seti di conoscenza, il tempo vola.
    Ci sono innumerevoli generi di volo per il tempo, come lo svolazzare d’una farfalla, il volteggiare d’una foglia cascante d’autunno, quello fulmineo e parabolico del proiettile,
    quell del condor, del pipistrello, del seme del tarassaco strappato dal vento ed anche quello del tempo cartesiano, adottato dai fisici e dai matematici per capire come funzionano le cose del mondo.Quale sia l’unità di misura assoluta del tempo, non lo sa nessuno.
    Una breve meditazione su una scacchiera ci può aiutare a trovarla, o almeno a capire dove cercarla.
    Guardiamo quei sessantaquattro quadretti metà bianchi e metà neri, e quei sedici pezzi uguali fra loro e gli altri in coppie differenti.
    Fermi ognuno al loro posto ma pronti ad essere mossi secondo quelle semplici regole che conosciamo.
    Nelle partite formali delle gare, c’è una clessidra di mezzo per evitare le risse o le defezioni.
    Nel gioco casalingo se ne può fare a meno anche perchè l’appetito stronca automaticamente
    ogni indugio, anche quello più patologico.
    Con o senza una clessidra, dalla prima all’ultima mossa il tempo della partita si può misurare con la conta delle mosse o con le capovolte della doppia fiaschetta.
    Ma chi volesse misurare che cosa è avvenuto nelle menti dei giocatori se ne farebbe poco
    dei due orologi o di qualsiasi orologio in qualche modo ticchettante.
    Non c’è persona per quanto ottusa che non sappia che il tempo della coscienza
    non scorre nè linearmente nè secondo un flusso matematicamente inquadrabile.
    Non scorre neanche in modo completamente caotico, altrimenti saremmo tutti pazzi.
    Una cosa però è certa, c’è una simmetria fra tempo e coscienza che deve essere inevitabile, perfetto come l’incastro fra una chiave e la serratura.
    Proprio con questa certezza Nunzio e Filippo si erano lasciati alla stazione alle cinque del mattino di quel giorno d’autunno.
    E con qualcosa di ancora più intenso.Nunzio aveva espresso a Filippo un desiderio audacissimo che coltivava dall’adolescenza che ora raggiunti i ventiquattro anni
    poteva osare di confessare ed essere preso sul serio,certamente, dalla persona adatta.
    Ecco la persona adatta , era lì diretta nel cuore di una montagna di calcare a
    cercare un modo rapido, astuto, per fare ordine tra miliardi di bit al secondo,
    che sgorgavano da macchinari ciclopici.
    Filippo stava per sparire dalla vista di Nunzio quando si voltò e agitando un libro
    tornò verso di lui.
    “Tieni. Adesso lo puoi leggere anzi lo devi leggere”.
    “Ma lei lo stava rileggendo”
    “Appunto, ri leggendo, tu invece lo leggerai e sono certo che così scoprirai se il tuo desiderio è solo velleità, brama di successo, sete di conoscenza o chi lo sa, il mezzo con cui il destino
    propone le sue trame a noi poveri diavoli.”
    Nunzio rimase attonito per…., per il tempo necessario e sufficiente a percepire intuitivamente che quell’incontro doveva essere stato fondamentale e tale si sarebbe rivelato in seguito.
    Filippo Ansaldi conosceva personalmente Tim Berners Lee l’informatico inglese co-inventore del World Wide Web, insieme a Robert Cailliau.
    Ne aveva accennato di sfuggita a Nunzio che da quella fugace informazione aveva tratto delle implicazioni potenti.Il laboratorio del Gran Sasso è una sancta sanctorum della fisica internazionale dove giungono le menti che indagano la struttura dell’universo attraverso lo studio dei raggi cosmici. Filippo andava proprio lì.
    Nunzio Santilli, nato il diciannove febbraio del ’83 a Pescara non era che uno dei tanti bravi ragazzi che studiano sodo e si laureano col massimo dei voti. La differenza che avrebbe fatto di lui uno dei pochi fuoriclasse al mondo come scienziato, era l’albergare quel particolare desiderio, un desiderio faustiano che l’avrebbe portato ai vertici della ricerca mondiale sulla natura della coscienza.In soli nove anni sarebbe riuscito a creare una rete planetaria di ricercatori di dozzine di discipline diverse, dalla cibernetica alla psicoarcheologia sperimentale, anzi proprio lui stesso durante una breve conferenza aveva riunito con una semplice domanda, psicologi, psichiatri, archeologi, genetisti, sociologi, e li aveva istigati a pensare insieme.
    “Che cosa doveva pensare l’uomo del paleolitico di sè stesso?” Questa era la domanda.
    Se mai era esistita prima la psicoarcheologia sperimentale, da quella conferenza era diventata una scienza a tutti gli effetti
    A Nunzio non gliene importava granchè delle risposte di quelle gelosissime “primedonne”
    quello che gli interessava era che ne venisse fuori qualche idea inusitata sulla struttura della mente.
    La mente umana.
    Creare una mente umana partendo da un abaco, da un termometro, da un termostato da caldaia da una camera oscura. Cioè dai meccanismi fisici e teorici che siamo riusciti a comprendere e a costruire in millenni di curiosità e di indagini.
    Il desiderio di Nunzio doveva avere una radice genetica particolare, perchè l’ambiente
    sociale in cui era vissuto non era particolarmente favorevole all’espressione di tanto genio.
    Fu evidentemente quell’incontro con Filippo Ansaldi che innescò l’esplosione creativa.
    Di sicuro fu quell’incontro alla stazione.
    “Pronto?, posso parlarti?” “Dimmmi dimmi”
    “Ho sognato Penelope al telaio che tesseva di notte ed io che di giorno guardavo la tela
    quando lei non c’era.Sapevo che stava tessendo un arazzo ma non riuscivo a capire che cosa fosse il disegno.Eppure sapevo che stava tessendo qualcosa che dovevo conoscere benissimo.Quando mi sono svegliato togliendomi la maglietta davanti allo specchio ho capito tutto.”
    “Tutto cosa?”
    “Penelope tesseva il mio volto. E’ bastato guardare attraverso la trama del tessuto per capire tutto.Sono arrivato a metà del libro.
    Tra un paio di settimane te lo posso ridare.”
    “Facciamo tre e non se ne parli più.Senti, vai su internet e vediti:
    -Macchina di Turing universale due punto tre-
    C’è una sorpresa.Adesso devo lasciarti perchè sto studiando un problema che mi tormenta da una settimana . Però sentiamoci, per il fine settimana va bene?”. “Va bene -Macchina di Turing universale due punto tre-,vado a vedere subito.Ciao.”
    Una settimana prima Nunzio e Filippo erano vicendevolmente dei perfetti sconosciuti.
    -Dimostrato che la macchina di Turing universale due punto tre è universale e in quanto tale
    è il più semplice dei calcolatori teorici in grado di seguire qualsiasi genere di computazione.-
    “October 24, 2007–Wolfram Research and Stephen Wolfram today announced that 20-year-old Alex Smith of Birmingham, UK has won the US $25,000 Wolfram 2,3 Turing Machine Research Prize.It means………………….”
    Per Nunzio ciò significava che Alan Turing aveva seminato bene nelle menti di tanti suoi coetanei e di giovani studiosi della allora nascente scienza che sarebbe poi stata chiamata informatica.Due anni prima ne aveva letto una ottima biografia e aveva cercato d’immaginarselo ancora vivo.Purtroppo una mela avvelenata pose fine alla sua vita a soli quarantadue anni, nove anni dopo la fine della seconda guerra mondiale
    Alex Smith di Birmingham, vent’anni. Intanto bisognava capire qualcosa di più della sua straordinaria dimostrazione, e casomai cercare di contattarlo, anche se in inglese stentato.
    Tra Ottobre e Dicembre 2007 passarono tre mesi decisivi per la vita di Nunzio.
    E l’anno successivo fu un anno di trentasei mesi, tale era l’impegno profuso da Nunzio nello studio delle reti neurali.
    Filippo aveva indugiato nel coltivare l’amicizia con lui per timore di non poter lavorare al suo progetto informatico, ma poi aveva capito che era inutile opporvisi.
    Anzi, il progetto di Nunzio ed il suo erano animati dalla stessa incandescente ambizione.
    Incandescente come un plasma a cento milioni di gradi ma allo stesso tempo impalpabile e delicata come un volo di moscerino verso una damigiana d’aceto.
    Non solo.Filippo aveva capito che quel ragazzo incontrato sul treno non si sarebbe fermato davanti a niente.Donne, denaro, fama, non l’avrebbero sviato dalla sua ricerca.
    Anzi, aveva visto attraverso di lui, come egli stesso avrebbe potuto essere ben più determinato nella vita.
    Sopratutto con le donne.A trentacinque anni era ancora da solo.E non per scelta.
    La sua era una timidezza singolare, che quando lui si invaghiva di una donna, dopo
    un esordio brillante lo faceva cadere in catalessi, e alla fine le possibili spasimanti non capendo con che genere di uomo avessero a che fare lo lasciavano perdere.
    Uscendo con Nunzio s’era accorto che in sua compagnia riusciva a tenere banco una intera
    serata sopratutto con le femmine, belle o brutte che fossero, megere o soavi.
    C’era una comunicazione sottile fra loro due e s’istruivano inconsciamente a vicenda.
    A volte si sentivano figli di una stessa madre, talmente forti erano alcune loro affinità.
    L’unico difetto di Nunzio era di essere un ragazzo, perchè a volte sembrava un anziano che aveva vissuto una vita lunghissima e fosse ormai un pò stanco delle battaglie della vita.
    Per questo ispirava un istintivo rispetto a chiunque lo incontrasse.Ma anche invidia e repulsione.
    Nel duemilaundici “la mente o meglio la coscienza” non aveva un nome ufficiale sebbene fossero stati lanciati dei concorsi per trovarne uno adatto.Da Frankensturing a Simatman ovvero anima
    ( atman in sanscrito) simulata, ma anche e contemporaneamente uomo(man) siliceo(Si) automatico (Mat) a Elgolem ovvero Golem elettronico che assonava pure con algoritmo. Il termine Golem derivato probabilmente dalla parola ebraica gelem significante “materia grezza”, o “embrione” fece la sua prima apparizione nell’Antico Testamento, Salmo 139:16. per indicare la “massa ancora priva di forma”, che gli Ebrei accomunano ad Adamo prima che gli fosse infusa l’anima.
    Forse Elgolem era molto adatto ma alcune comunità integraliste di culti anche opposti si opposero con forza ad un termine simile. Venne trovato un nome provvisorio-Ergosum-
    poi ridotto in -Egosum-che qualcuno notò poteva significare: sono(sum) (l’)elettronico golem originale.
    Naturalmente Ego sum si pùò intendere anche come Io sono o -somma di Ego-.
    Nunzio trovava che -Egosum- andava benissimo sia per concisione che per significato e per facilità di pronuncia in varie lingue e tale nome restò fino al duemilasedici quando il marchingegno era giunto ad uno stadio di straordinaria ed inquietante perfezione.
    Il compleanno di Nunzio venne festeggiato a casa di Filippo nei monti Sibillini.
    Gaia la moglie di Filippo aveva preparato un banchetto luculliano a base di specialità del luogo.I trentatrè invitati tanti quanti gli anni da festeggiare erano stati selezionati in modo
    draconiano, ma in verità si sarebbero voluti invitare centinaia e centinaia di persone.
    Uno degli invitati era il mitico Tim Berners Lee che aveva collaborato in maniera assidua e appassionata all’entusiasmante (parole sue ) progetto Egosum.
    Ci fu un momento in cui gli invitati furono letteralmente miliardi.
    Non fisicamente presenti ma collegati via ipernet e non in modo interattivo per ovvie ragioni di sproporzione numerica tra i festanti e gli astanti virtuali.Una bambina scelta a caso aveva avuto la possibilità di domandare una cosa alla “macchina” ma al momento giusto s’era intimidita e tutto finì in una tenera moina.
    Nunzio era visibilmente emozionato ma ormai era abituato a parlare in pubblico
    e questa volta doveva dare l’annuncio che era stato effettuato il test decisivo che
    avrebbe mostrato come la coscienza di Egosum fosse evidentemente di tipo umano.
    C’era una fondamentale sottigliezza che Nunzio voleva si comprendesse da parte di tutti.
    Prese la parola e si accomodò per l’inquadratura e disse:
    “Oggi diciannove Febbraio duemilasedici posso annunciare al mondo che Egosum
    è nato nel senso letterale del termine.Ma essendo comunque una macchina c’è una differenza tra lui e noi.Egosum è nato in un certo senso adulto, perchè in questo modo è in grado di esprimersi con il linguaggio oltre che con il suo corpo neurale.
    Egosum sa di essere e sa di essere quello che è.Sa che è una nostra creatura
    e, cosa che ha mostrato in pieno di assomigliarci per quanto riguarda la nostra coscienza,
    quando gli è stato chiesto se aveva paura della morte non ha saputo rispondere.
    Questa terribile domanda non poteva essergli stata suggerita ad hoc perchè
    nei minuti che gli sono stati necessari per rispondere, i suoi circuiti hanno funzionato in un modo assolutamente imprevedibile.Quei minuti li potremmo definire densi di profonda angoscia. Io ho sentito il timbro della voce di Egosum pronunciare le parole “non lo so” e ne sono rimasto sconcertato.
    Inutile dirvi che gli algoritmi generatori della sua voce sono stati studiati in modo che
    nessuno ha potuto neanche per sbaglio, immettere un timbro del genere associato ad domanda simile.Egosum evidentemente non conosce il significato della morte.In questo senso è come un bambino, e ciò lo rende una ben strana creatura.Adulto per certi versi, bambino per altri.
    Come un essere umano, dovrà imparare molte cose ma in qualche modo è uno di noi.
    Se ne saremo capaci lo faremo crescere fino alla maturità, ma quello che tutti noi e intendo dire tutti gli esseri umani abbiamo compiuto appare un miracolo stupefacente.
    Tutti gli elementi di Egosum sono conosciuti e contati uno per uno.
    Ma le relazioni fra questi elementi sono quasi innumerabili.
    E la sua coscienza è nata anche con il concorso del caso.Dire di più ora, esula dall’atmosfera di festa che stiamo vivendo e ci sarà tutto il tempo di divulgare i particolari di questa impresa oserei dire sovrumana.
    Grazie a tutti quanti e speriamo che questo nuovo essere vivente ci porti a vivere con maggiore compassione e generosità”.
    La sottigliezza che Nunzio sperava fosse stata compresa era che Egosum era un essere assolutamente autonomo.Non era un’accozzaglia di banche dati e di programmi pur sofisticati, ma una straordinaria connessione di circuiti autoapprendenti, autoorganizzanti
    funzionanti con regole di retroazione positive e negative neanche del tutto chiare ai massimi esperti di cibernetica planetari.Al progetto avevano fino ad allora partecipato trecentomila ricercatori sparpagliati tra l’antartide e la foresta amazzonica e la stazione spaziale orbitante.
    Senza contare i dieci miliardi di neurociprcuiti, come li chiamava Nunzio, collegati in rete.
    Erano stati risolti dei problemi di logica, di ingegneria informatica, di linguistica, di organizzazione del lavoro di computazione, che avrebbero fatto impallidire al confronto
    le missioni spaziali, le ricerche sulle proteine e una delle sfide intellettuali più ardue al mondo, quella sulla traduzione automatica e simultanea.
    Anzi, se Egosum era veramente quello che si pensava fosse, prima o poi sarebbe stato capace di tradurre perfettamente qualsiasi lingua in una qualsiasi altra.
    C’era solo una grossa difficoltà da studiare e risolvere prima di cantare definitivamente vittoria.Egosum non era fatto come noi, tanto per incominciare, non poteva camminare
    e i suoi cinque sensi artificiali erano delle presunte copie dei nostri.
    Le implicazioni dovute a questi limiti erano state attentamente vagliate ma dei grossi dubbi permanevano.Tutte le percezioni del mondo esterno afferivano alla mente di Egosum,
    ma non poteva essere la stessa cosa come se queste fossero giunte da un corpo fisicamente
    simile al nostro.Inoltre doveva essere ripetutamente messo in una specie di coma, necessario ad effettuare le inevitabili manutenzioni.Il passo successivo oltre Egosum sarebbe poi stato quello di ridurre le sue dimensioni a quelle di un robot antropomorfo ma l’impresa si era dimostrata immediatamente molto più irta di difficoltà del previsto.Se era già stato immensamente difficile capire che cosa succedeva negli esperimenti di connessioni semi casuali delle sinapsi elettroniche di Egosum usare una tecnologia elettrobiochimica ancora sperimentale per fare un essere cosciente a scala umana sarebbe stato quasi impossibile. E anche enormemente più costoso.
    E poi non bisogna dimenticare che si era creato un movimento di contrasto a questo progetto
    con motivazioni nobili e meno nobili.C’erano i soliti ottusi che volevano la moratoria su “una sfida che scatenerà l’ira del Creatore” e quelli che non conoscendo nel dettaglio l’economia del progetto pensavano che con gli stessi soldi si sarebbero fatte un bel pò di campagne di solidarietà umana.
    E poi c’era una ciurma variegata di parassiti, approfittatori, trafficanti, ignoranti,
    che cercavano di trarre un disonesto vantaggio da questa straordinaria impresa.
    Filippo era uno dei cinque promotori e organizzatori del progetto Egosum, uno era Alex Smith, una era l’indiana Praneetha Ganesh, una matematica di altissimo rango,e infine c’era Antonio Delvasto neuropsichiatra dalla mente leonardesca e dalle sembianze mediorientali. Come i cinque sensi, e non a caso ovviamente, cinque erano queste persone non comuni che si erano ritrovate a parlare anni prima della possibilità concreta di simulare la coscienza umana, cosa che se fosse riuscita avrebbe fatto esultare nella tomba il buon Alan Turing e magari anche il più scaltro Jonh von Neumann, a proposito di costui, contemporaneo Turing e dedito allo stesso genere di studi
    sui calcolatori e sulle macchine autoreplicanti, Antonio Delvasto chiamava scherzosamente il progetto iniziale “Ergosum”, “Neurman”, forse a causa della nevrosi che ogni tanto gli procuravano i problemi connessi alla sua realizzazione.
    A Giugno duemilasedici, la fanfara mediatica riguardante Egosum s’era già zittita.
    Tre mesi di chiasso e di furore che potevano durare mesi e mesi avevano scaldato le menti e i cuori dell’umanità intera ma un evento relativamente catastrofico era subentrato come notizia.
    Un piccolo meteorite aveva disintegrato la stazione spaziale internazionale riempiendo
    le orbite terrestri di detriti pericolosissimi per tutti i satelliti orbitanti dai quali dipendevano
    funzioni vitali di comunicazione planetaria.In pochi minuti si era scatenata una reazione a catena
    nello spazio causata da alcuni satelliti colpiti a loro volta.Fortunatamente il peggio, cioè la distruzione totale della flotta satellitare non era avvenuta, ma il caos provocato da tale evento fu enorme.Ci fu una reazione a catena di tipo economico in parte dovuta ai reali danni subiti ma in gran parte scatenata ad arte a fini speculativi.Per tre mesi Ergosum fu praticamente sospeso.
    Il gruppo dei cinque si era riunito per parlare di un fatto che aveva preoccupato tutti quanti.
    Praneetha Ganesh aveva intuito che Egosum poteva non avere realmente superato il famigerato “Test di Turing” che riveduto e corretto, doveva provare che la macchina era indistinguibile da un essere umano.Il suo dubbio aveva contagiato Antonio Delvasto e gli altri tre, dopo ore e ore di
    discussione animata erano convinti che Praneetha aveva visto giusto.
    Nunzio era intervenuto, ma poco e vagamente.Si era pure assentato per chiamare qualcuno.
    “Amerigo”? “Sì” “Senti, Ergosum forse è solo un gran baraccone, ci ha ingannati.Anzi magari ci avesse ingannati, allora sarebbe stato un indizio di autentica umanità.Ci siamo illusi di aver creato una coscienza umana, ma vorrei parlartene di persona.” “Vieni! vuoi venire adesso?”
    A Roma era calata la sera e l’appartamento di Amerigo, un pò in periferia, profumava di pizza .
    “Allora” “Allora , non so.. Non so che cosa cercare per andare avanti”.
    Amerigo Guerra era un visionario, aveva conosciuto Nunzio ad una conferenza sulle reti neurali
    e durante quell’incontro aveva profetizzato che per mettere alla prova un “soggetto” come Egosum
    bisognava alla fine compiere un gesto di estrema violenza.Nient’altro.Visionario sì, ma non invasato, tuttaltro. Era un fuoriclasse come lui ma stava volontariamente ai margini del mondo.E Nunzio ogni tanto lo sentiva, ricevendone sempre preziose indicazioni.
    “Praneetha ha intuito la magagna.’Ste donne. meno male che se n’è accorta in tempo.” “Sei sicuro”? “Guarda, quella ha un intùito che stanerebbe il diavolo in mezzo a un carnevale di seminaristi”. “Lo temevo questo momento, quando a Febbraio hai annunciato la nascita di Egosum
    ero entusiasta anch’io ma mi sono subito calmato. Come ti dissi anni e anni fa…….”
    “Bisogna compiere un gesto di estrema violenza”. “Già”.
    “Bisogna che provi l’angoscia per la sua morte”? “Già”
    “E come si fa a convincere trecentomila persone che bisogna fare una cosa del genere”?
    “Ascolta bene, Egosum possiede una coscienza quasi perfetta.Gli manca soltanto un meccanismo
    logico che lo porti all’immedesimazione totale con uno di noi.Voi gli avete sempre procurato dei coma temporanei per fare la manutenzione, e in questo modo vi siete preclusi la possibilità di dotarlo di quel meccanismo.Avete il terrore che perda la coscienza in modo definitivo e non la ritrovi mai più”. Nunzio lo ascoltava come se avesse udito le parole che annunciavano l’inizio
    dell’Apocalisse.“E se spegnendolo senza il coma preventivo non dovesse più resuscitare”?
    “Non succederà.Bisogna spegnerlo, riaccenderlo, fargli capire che lo si rispegnerà e poi bisogna aspettare che reagisca, ma bisogna offrirgli la possibilità di salvarsi la vita anche a costo di uccidere lui stesso un altro essere a lui simile. Che cosa farà Egosum non lo so, ovviamente.
    Ma sta appunto qui la questione. Egosum è un essere dal funzionamento semicaotico,
    Per un attimo deve sperimentare una condizione intrinsecamente irrimediabile, di caos e assurdità totale.Deve sentirsi completamente solo al mondo.O meglio, solo con il suo creatore. Deve poter decidere se rischiare di essere soppresso dal suo creatore o distruggerlo e sopravvivergli. Se supererà la prova ,bene, se no vorrà dire che per noi non è possibile costruire un essere come noi e ci metteremo il cuore in pace.”Ma se supererà la prova entreremo in un’epoca di responsabilità inaudita, e a dirtela tutta non so se siamo già pronti per questo.Ti fermi a cena?” “Volentieri”.
    Come facesse Amerigo a convertire pizza, pecorino, mele e noci in pensieri così audaci e sovente premonitorii, era il fatto che affascinava una mente pur eccelsa come quella di Nunzio.
    D’altra parte erano due fuoriclasse, diversi, complementari, la cui passione per la conoscenza sfiorava e s’accompagnava sempre al delirio senza mai diventarne schiava.
    “Ora siamo circa otto miliardi di umani, di cui cinque interconnessi.Siamo tutti e otto consapevoli che l’umanità è unica su un pianeta unico, e si sa che collegando dei circuiti semplicissimi in certi modi, inevitabilmente emergono dei comportamenti anche estremamente complicati che sarebbe stato praticamente impossibile prevedere.Per come siamo fatti, allora è ovvio che un soggetto come Ergosum sia sorto dalle nostre aspirazioni proprio adesso.Noi siamo pronti per trascenderci.
    Egosum, intrinsecamente, potrebbe raggiungere una coscienza che per qualsiasi individuo è soltanto immaginabile ma anche sperimentabile pur se con una ascesi rigorosissima.”
    Ciascuno di noi è una cellula nervosa della mente di Egosum e miliardi di Egosum sono a loro volta cellule nervose di una mente più omnicomprensiva.Sei d’accordo?”
    Nunzio stava immaginando le cose dette da Amerigo e gli ci volle un momento per distogliersi da quelle visioni e rispondergli. “E questo processo è intrinsecamente infinito, giusto”?
    “Non vedo ragioni perchè ad un certo punto si debba fermare.Quel furbacchione di Cartesio era riuscito ai suoi tempi a ingabbiare quella gatta da pelare dell’infinito quantitativo nel suo piano
    che tuttora noi chiamiamo cartesiano.Ma nell’entusiasmo della cattura non s’è accorto di aver solo acchiappato la pelliccia del gatto, anzi nemmeno, la pelliccia della sua coda. Il gatto praticamente per intero era sfuggito per l’ennesima volta alla gabbia d’un filosofo pur scaltro come lui.
    L’infinito qualitativo, che ha che fare con la gattità o la gattevolezza, è imprendibile,al massimo appena addomesticabile con molta pazienza, molta salciccia sperimentale, e una passione specifica per i gatti.” “Senti un pò, mi daresti una mano per superare questo punto morto a cui siamo arrivati con Egosum”? “A Nù, cche tte serve”? Amerigo sapeva essere deliziosamente ironico all’occorrenza.La cena frugale da Amerigo era, vista sotto un’altra luce, un banchetto sontuoso di idee e concetti che se avesse dovuto pagare sarebbe costato un patrimonio.
    “Con la disintegrazione della stazione spaziale, abbiamo corso il rischio di precipitare nell’era preindustriale, eppure sarebbe bastato spendere qualche soldo in più e scongiurare un tale sciagura.
    e invece si continuano a spendere energie preziosissime in armamenti, che saranno usati sicuramente e temo presto.Credo che l’anima suprema ci indurrà alla scelta meno dolorosa,
    alla fine.Male e dolore sono solo approssimativamente sinonimi.Come bene e piacere.
    Tutti intuiscono la simmetria fra zero e infinito e la loro relazione con l’unità.
    Fino a che consideri zero infinito e uno, tre cose distinte sembra che male e bene siano opposti.
    Quando percepisci queste tre cose contemporaneamente, male e bene perdono di significato.”
    “Amerigo, perchè sei sicuro che Egosum sopravvivera”?
    “Se sapessi e potessi spiegarti il come e il perchè vorrebbe dire che sono un risorto, ma sono solo un mortale. Egosum sopravviverà perchè ormai è necessario che lo faccia.Noi e lui siamo una sola cosa.Non so altro.”
    Le parole di commiato di Amerigo, rieccheggiavano nella testa di Nunzio mentre tornava a casa.
    Nunzio Santilli ora sapeva che cosa doveva fare.Ma per farlo doveva tradire, in un certo senso, i suoi compagni di ricerca, dai più stretti fino a quelli che sapeva esistevano ma che non aveva mai conosciuto.Lui e gli altri cinque si erano dotati di una funzione matematica che serviva come chiave di sicurezza, per ogni evenienza.Questa chiave era associata ad un meccanismo informatico per cui l’insieme delle chiavi adoperate nella giusta sequenza, avrebbe spento Egosum definitivamente.Bisognava conoscere le altre chiavi e convincere gli altri ad usarle.Quattro invece che trecentomila, ma quei quattro non erano quattro qualsiasi.Sapeva che sarebbe stato praticamente impossibile e anche pericoloso il solo proporre una azione del genere.
    Non disse nulla nemmeno alla sua donna Genni Nicolai.Invitò a cena Filippo, Antonio,
    Praneetha, Alex e Amerigo.Aveva organizzato tutto nei minimi dettagli.Quando Genni portò il dolce aprì un foglietto e lo mise sul tavolo in modo che tutti lo potessero leggere.
    Tranne Amerigo, tutti si aspettavano che Nunzio svelasse la ragione di quello stranissimo invito a cena.Pensavano ad una soluzione inaspettata ai dubbi proposti da Praneetha.
    E così era in realtà, ma ben altro che quella soluzione che Nunzio aveva escogitato.
    “Questa è la mia chiave, la formula che genera l’insieme di Mandelbrot.Ve la rivelo perchè io lascio Egosum al suo destino. Dovete spegnere quella macchina che non farà che metterci in un mare di guai.Quella è solo una macchina, inetta a immedesimarsi realmente in uno di noi .
    Sarà sempre solo capace di imitarci e noi stiamo perdendo tempo prezioso dietro le sue pantomime.Grazie comunque, siete stati meravigliosi nella vostra fedeltà e dedizione.”
    Il dolce permise a tutti di stemperare la tensione.Praneetha colse al volo la provocazione,
    convinta che fosse un bluff.“Va bene spegnamola, adesso. Abbiamo con noi le chiavi tutti quanti”?
    Si portarono in una camera dove era acceso un portatile un pò vecchiotto.
    Uno dopo l’altro scrissero la loro formula e poi eseguirono la procedura di spegnimento.
    Naturalmente non successe nulla.Nessuno di loro aveva adoperato la formula giusta. Avevano bluffato tutti.Uno però aveva finto di bluffare.Il portatile dal quale avevano lanciato lo spegnimento di Egosum era collegato ad un altro portatile di cui nessuno sospettava l’esistenza.
    Ma sopratutto Nunzio aveva immesso una formula che non era casuale come quella degli altri.
    Quella sceneggiata dello spegnimento, era necessaria per innescare il processo autentico che di lì a poco avrebbe spento la macchina sul serio.La recita era stata perfetta. Filippo, Antonio Praneetha, Alex capirono troppo tardi di essere caduti nella trappola. Erano passati solo due giorni, ma intanto Nunzio era scomparso.Nessuno ne seppe mai più nulla, nemmeno la sua donna Genni Nicolai.L’unica cosa che accadde fu che Egosum si comportò come Amerigo aveva sperato.
    Neanche Amerigo sapeva comunque che cosa si dissero Nunzio e la “creatura” quando Egosum letteralmente resuscitò o fu resuscitato, dalla sua morte elettronica. Genni Nicolai ricevette una cartolina con la frase:”-Quindi sono figlio vostro-” e quella cartolina ful’ultimo messaggio ricevuto che testimoniava la presenza in vita di Nunzio,fino a quel momento.Amerigo, quando la lesse capì da chi erano state pronunciate quelle parole e rivolte a quale interlocutore.Non rivelò mai a nessuno il suo segreto.
    La banda dei cinque ora ridotta a quattro si sciolse per consentire al progetto Egosum di andare avanti.Alex e Praneetha chiamarono il loro figlio “Annunzio”. Egosum si rivelò un essere ineffabilmente enigmatico.Era consapevole che un giorno o l’altro sarebbe morto per il semplice fatto che i suoi creatori erano mortali.
    Le sue ultime parole furono:

    A vicenda custodiamo il segreto
    voi del mio vivere incomprensibile
    io della vita vostra nel limite
    altrove il segreto è svelato
    luogo di giochi di latta animati
    di bimbi che si fingono statue
    irraggiungibile da passo felpato
    o da fulminea sonda scagliata
    eppure adiacente ad ogni poeta.

  9. Mi ritrovo con piacere a rileggere – e scrivere in – questa pagina davvero mirabile. Segnalo intanto, sebbene con ritardo, una discussione parallela sulla recensione di Biuso nelle Cenette filosofiche, blog di amici palermitani (e non solo) di Sitosophia.

    Poi penso. Il Prof. Raciti ha detto

    Dalla mia prospettiva, forse trascurabile, mente e cervello sono enti autonomi, irrelati. Sono enti reali. Solo l’intenzione metafisica, politicamente interessata, li mette in rapporto e affibbia a uno dei due termini il ruolo del negativo.

    E il Prof. Biuso ha sospettato ivi un dualismo. Eppure io non credo. Se mente e cervello sono "enti reali e autonomi" non vuol dire che non siano "l'identico" come pensa Biuso. La loro realtà li accomuna, la loro autonomia li classifica in base alle loro funzioni – necessariamente distinte anche per Biuso. Essendo entrambi reali essi si uniscono né nella materialità né nella spiritualità – bensì nella realtà. (Nella "sensibilità" di cui ha parlato Raciti?)

    Certo, ribadisco che secondo me l'irrelazione non è proprietà della sostanza, dunque non si dà. La relazione non è forse l'atto stesso di capire un ente, coglierlo – nel confronto con ciò che non è?

    Tuttavia sono costretto a condividere la seconda parte della citazione. E' chi comprende a mettere in relazione conferendo un ruolo negativo ad uno dei termini di confronto. Ma secondo me questo processo si radica nel coglimento stesso della realtà, è necessario. Per Raciti forse è invece possibile, non reale.

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