Dante, i sogni e l’economia aziendale

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E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avrìa buona la gente
Dante, Paradiso, canto VIII

Il passato è l’alterità dispiegata nel tempo, refrattaria – più di quella spaziale – a ogni forma di sbrigativa ‘globalizzazione’ culturale. Il rapporto con il passato è sempre percezione delle differenze, in un silenzio che via via si anima di fitto comunicare: un che di medianico sottilmente lo attraversa, in cui non sempre è chiaro quale sia lo spirito restituito alla vita. Attraverso il tentativo di calarsi in concezioni segnate dal marchio della distanza e dell’inattualità, si deve dunque cercare di scongiurare i limiti e gli equivoci insiti in una fruizione di tipo ‘presentistico’, che tenda a schiacciare le epoche passate sulla nostra: l’atteggiamento adeguato consiste nell’esplorare con le giuste dosi di pudore e di curiosità mondi lontani dal nostro, nell’infondere sommessamente vita all’inattualità e nel lasciarsene a propria volta pervadere. Nell’accettarla come tale: irrimediabilmente e splendidamente lontana, diversa, altra.
Allora il fascino discreto dell’inattualità può qua e là sprigionare bagliori che filtrano le opacità del contemporaneo. Nel senso che possono aiutare a percepirne le ombre, che è comunque il presupposto per tentare di diradarle, se, come dice Giorgio Agamben, «il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo»1. Dante ci fa scorgere alcune ombre, ci fissa e ci condanna alla nostra drammatica e turbinosa contemporaneità. La scommessa consisterà non nel leggere Dante con gli occhi del presente, ma nel provare a leggere qualche squarcio del presente con gli occhi di Dante. Se i classici sono come ‘giganti addormentati’ che solo una lettura empatica e commossa può risvegliare, proviamo a scuotere dal sonno il canto VIII del Paradiso, lasciandoci trasportare come in un rapinoso giro di danza.

G. Dorè, Carlo Martello
G. Dorè, «Carlo Martello»

Siamo nel cielo di Venere. Vi si trovano le anime di coloro che, in vita, furono mossi da appetito inferior con difetto di temperanza: inclini, cioè, a un amore eccessivo per i beni terreni. Appaiono sotto forma di lumi che danzano vorticosamente. Il canto è disseminato di indizi di amore e di bellezza: la stella Venere vagheggiata dal sole, l’accresciuta bellezza di Beatrice, la disponibilità delle anime a soddisfare i desideri del visitatore, le parole dello stesso Dante infuse di affetto, la ‘allegrezza’ di un’anima che si manifesta nell’intensificarsi della luce; e, ancora, la venerazione di cui essa fu oggetto in vita da parte di Dante.
L’anima che si incontra è quella di Carlo Martello d’Angiò, la cui vita fu breve e piena. Figlio primogenito di Carlo II, detto lo ‘zoppo’, e di Maria d’Ungheria, era nato nel 1271. Si sposò a soli sedici anni con una figlia di Rodolfo d’Asburgo, Clemenza, alla quale, grazie alla strategica lungimiranza di un pontefice, era stato promesso fin dall’età di tre anni. Per parte di padre, era destinato a essere sovrano del Regno di Napoli e della Provenza, mentre la madre gli cedette i suoi diritti sull’Ungheria già dal 1292, rendendolo re a poco più di vent’anni. In occasione di un incontro in Toscana con il padre che tornava dalla Francia, nel 1294, a Firenze fu organizzata una delegazione di cui fece parte quasi sicuramente anche Dante. Soltanto l’anno dopo Carlo Martello moriva, vittima di una misteriosa epidemia, e con lui moriva la moglie: quell’unione, decisa da altri, doveva aver trovato una sua segreta necessità.
1294, dunque: ventitré anni Carlo, ventinove Dante. Giovanissimo sovrano in ascesa l’uno, giovane poeta che cominciava ad assaporare l’impegno politico l’altro. È un canto, l’ottavo del Paradiso, su cui si stende lieve e discreto il profumo della giovinezza. La giovinezza di un personaggio di rilievo, che non ebbe il tempo di mostrare la pienezza dei frutti delle sue qualità e delle sue azioni ma che nel fulmineo arco della sua vita seppe concentrare prove di abilità in campo diplomatico nonché di avvedutezza in qualità di reggente e di amministratore: destinato a lasciare una scia di rimpianto per quello che avrebbe potuto fare, a trasformarsi in mito, almeno agli occhi di Dante, come avviene a coloro che sanno consegnare alla storia un esempio di cose umane di alto profilo, divampato nel corso di una vita intensa e prematuramente spezzata. È un canto di giovinezza, in maniera altrettanto filtrata ma non meno incisiva, anche per il discorso finale che, con brevi interlocuzioni di Dante, vede come protagonista lo stesso Carlo.
Vi si introduce inizialmente, accanto al topos dell’influenza dei cieli sui destini e sui caratteri degli uomini, l’idea di una sorta di clinamen generazionale che spezza il determinismo ereditario. La concezione del determinismo ereditario affonda le sue radici nella filosofia di San Tommaso. Questi aveva affermato nella Summa Theologiae che in rebus naturalibus forma generati est similitudo quaedam formae generantis2 («nelle cose naturali la forma dell’essere generato è qualcosa di simile alla forma dell’essere generante»), ossia che nel ciclo della vita ci fosse la tendenza naturale dei figli a essere perfettamente uguali nelle inclinazioni e nel carattere ai padri e che, dunque, alla nascita si avessero degli individui del tutto simili ai genitori. Dante introduce una correzione alla teoria di Tommaso rivendicando il ruolo del ‘proveder divin’ che spezza questa linea retta e restituisce la varietà alle forme di vita.
Il dubbio del Dante agens dunque – come mai i figli siano spesso diversi dai padri – viene chiarito dal Dante auctor sotto le vesti di Carlo, con ricchezza di argomentazioni. Nella prima parte della risposta, Carlo accenna alla perfezione dei meccanismi provvidenziali. L’intelligenza di Dio si risolve nella capacità dei cieli di influire sulle creature terrene. Dio provvede non solo agli esseri ma all’insieme degli attributi che permettono all’essere stesso di realizzare le proprie potenzialità e di fargli conseguire il suo proprio fine. Si tratta di operazioni razionalmente attuate perché i cieli sono guidati da intelligenze celesti: perfette, come perfetto è il Primo Intelletto che le ha create. Dante non può che mostrarsi concorde con quanto ha ascoltato: la natura non può venir meno in ciò che riguarda le necessità degli esseri da lei generati. Seguono due domande retoriche da parte di Carlo: alla prima – non sarebbe forse peggio se l’uomo non vivesse in comunità? – risponde Dante, che non ha bisogno di dimostrazioni: dallo ζòον πολιτικόν di Aristotele al senechiano in commune nati sumus, c’era, in tal senso, una consolidata tradizione di pensiero. Alla seconda domanda – può sussistere un’ordinata vita comunitaria, se non c’è una varietà di individui che esplicano funzioni diverse? – risponde Carlo stesso, richiamandosi alla dottrina aristotelica. I caratteri devono essere diversi: la varietà è uno dei segreti fascinosi della creatura umana e di questa vita. Il legislatore, lo stratega, il sacerdote, lo scienziato sono state le ‘cere’ – gli uomini – sulle quali i cieli hanno impresso, con il loro influsso, il sigillo — l’indole. La ‘circular natura’ opera senza tener conto dell’ambiente e della famiglia a cui l’uomo appartiene per nascita: le qualità sono delle singole persone. La Provvidenza divina interviene, come si diceva, a spezzare il determinismo della catena generazionale: spesso, dunque, i figli non riproducono i caratteri dei padri.
Affidato a un corollario è il messaggio conclusivo di Carlo, il momento forse più suggestivo dell’intero discorso e dell’intero canto. Un uomo che non trovi l’«humus» adatto per realizzare le sue potenzialità è come un seme sperduto in una terra non sua, che non potrà mai fruttificare. Si presti ascolto, invece, alle inclinazioni e si creino le condizioni per permettere loro di fiorire: presupposto di una società armoniosa e funzionale sono le persone che si sentono interiormente realizzate, non quelle costrette a tradirsi. È dunque nella parte conclusiva che le parole di Carlo risuonano con particolare suggestione per chi si aggira ancora negli anni aspri e travolgenti della giovinezza: non bisogna tradire ‘il fondamento che natura pone’, bisogna dare ascolto alle proprie inclinazioni perché a questo è legata non solo la felicità di chi si affaccia alla vita ‘professionale’ ma anche, in una sorta di virtuosa circolarità, l’efficienza della società.
È un messaggio che i giovani dovrebbero far proprî in tempi in cui le sirene pompose e non di rado capziose del ‘mercato delle offerte’ tendono a bruciare il terreno su cui fioriscono i sogni. Lo so bene: i sogni rischiano di non dare pane o di darne poco e stentato (sarà poi sempre vero? E non sarà comunque migliore il sapore di quel pane?). Ma una società non è solo un intreccio di dati, di conti e di percentuali, non è solo lo scenario per le analisi e le tecniche dell’economia aziendale, non a caso, peraltro, una delle nuove regine fra le facoltà universitarie: la si cambia o la si rende migliore anche in minima parte quando la briciola di un sogno che ha attecchito dentro di noi prova a scalfirla, e comunque quella briciola può servire a rendere migliori noi stessi, che non è cosa da poco. I giovani, che dovrebbero essere la leva naturale del sogno, non sognano: li abbiamo educati a soffocare i sogni, come fossero rigurgiti di un animo malsano, a pianificare il loro futuro esclusivamente sull’onorario, a sentirsi realizzati non se ci si abbandona al soffio delle inclinazioni – che è cultura in un senso pieno della parola in quanto valorizzazione del ‘fondamento che natura pone’, arricchimento del corpo e dello spirito sociale, Dante dixit –, ma se si possiedono molte carte di credito e materiale adeguato per un proponibile curriculum.
È possibile che dietro la crisi dell’occupazione ci sia anche la crisi delle inclinazioni? Altro che ‘immaginazione al potere’! La cruda e greve fattualità del denaro è al potere, le algebre rigorose more bocconiano come ragnatele avvincono il disegnarsi unidirezionale delle vite. Molti vivono conficcati in un presente pieno di occupazioni ma privo di spessore: se si dovesse sinteticamente connotare la generazione dei giovani – e non solo – d’oggi, si potrebbe anzitutto definirla come generazione acronica, barcollante sulle sabbie di un eterno presente che preclude la cultura del tempo, passato e futuro. Alieni al passato come cifra della distanza-differenza e, insieme, come senso profondo di ciò che ci costituisce nel vivo delle fibre; alieni al futuro come luogo del dispiegarsi delle vocazioni: — del sogno.

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