Sacrificati in luogo di immagini

Tratto da tr. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007
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Dal momento che non siamo in grado di afferrare l’idea di milioni di assassinati, il nostro orrore non potrà aumentare se ci renderemo conto anche del fatto che questo sterminio è stato compiuto sulla base o in sostituzione di immagini. Quell’idea fondamentale che per noi, educati nella fede di un progresso dell’umanizzazione, una volta sarebbe stata ovvia: l’idea che l’uomo ha incominciato a essere uomo in quel momento, di importanza storica universale, in cui il sacrificio umano fu compiuto simbolicamente, ossia quando Isacco fu sostituito dal montone — questa idea non poteva venir tradita in modo più spaventoso che con il massacro di questi uomini sacrificati in luogo di immagini (n. 2, Parte seconda, Capitolo quarto, pag. 312).

Nei processi contro i «crimini verso l’umanità» si ripeteva continuamente la stessa situazione: gli accusati erano offesi, sgomenti, qualche volta addirittura indignati che ci si rivolgesse a loro come «persone» e che li si rendesse quindi responsabili dei maltrattamenti inflitti a coloro che avevano maltrattato e dell’assassinio di coloro che avevano assassinato. Sarebbe completamente errato prendere questi accusati per esemplari casuali di esseri disumanizzati e incalliti. Se non erano in grado di sentire rimorso, vergogna o una qualunque altra reazione morale, non si deve dire che ciò fosse «benché» avessero collaborato, ma perlopiù perché avevano soltanto collaborato; e alle volte anche proprio perché avevano collaborato, cioè: perché per loro «essere morali» coincideva eo ipso con la «medialità» [l’essere attivi-passivi-neutrali] al cento per cento e quindi (per aver collaborato) avevano la coscienza pulita. Avrebbero potuto esprimere all’incirca così ciò che pensavano nella loro «impenitenza»: «Se almeno sapessimo cosa volete da noi! Allora eravamo pure in regola (o, se volete, “morali”). In fin dei conti noi non abbiamo colpa se quell’ente di gestione con cui abbiamo collaborato con soddisfazione è sostituito oggi da un altro! Oggi è “morale” collaborare con questo; allora era “morale” collaborare con quello».
Per quanto atroci siano stati i crimini che tale atteggiamento ha reso possibili — chi se ne meraviglia come di frammenti erratici della nostra epoca se ne preclude la comprensione, perché, visti isolatamente, questi crimini non hanno realtà o, a ogni modo, non hanno una realtà comprensibile.
Li possiamo capire infatti soltanto se ne consideriamo il rapporto con un dato tipo di azioni, cioè se ci domandiamo che tipo di azione rappresentano; secondo quale modello di attività funzionano. E la risposta è che, fondamentalmente, gli autori dei crimini, o perlomeno molti di loro, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro, di quel lavoro che li aveva formati.

[…]

L’azienda è dunque il luogo dove viene creato il tipo dell’uomo «mediale-senza coscienza», il luogo di nascita del conformista. Basta che l’uomo che vi viene foggiato venga trasferito in un altro campo, ad altri compiti, in un’altra «azienda», e improvvisamente, senza che subisca mutamenti essenziali, appare mostruoso; improvvisamente ci riempie di raccapriccio; improvvisamente la sospensione della sua coscienza, che era stata già prima un fatto compiuto, assume l’aspetto di nuda e cruda mancanza di coscienza, la sospensione della sua responsabilità quello di nuda e cruda moral insanity. Finché non guardiamo in faccia questo dato di fatto, finché dunque non riconosciamo che l’azienda odierna è la fucina, lo stile di lavoro, il modello del livellamento, saremo incapaci di comprendere la figura dell’odierno uomo conformista; e dunque di capire la posizione di quegli esseri «incalliti» che, nei processi sopra ricordati, rifiutavano di pentirsi o di sentirsi responsabili dei crimini a cui avevano «collaborato». […] I crimini, poiché affondavano le loro radici nella «medialità» dell’odierno stile di lavoro, erano intimamente connessi con il carattere intrinseco della nostra epoca; e perciò erano molto più spaventosi e fatali di quanto non si sia visto quando si è tentato di darne una spiegazione (molto superficiale) […]; perché non siamo in grado di immaginare uno stile di produzione, ossia di lavoro, che differisca da quello che vige oggi (pagg. 269-272).

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