Commons / beni comuni

a cura di L. Coccoli, goWare ebook 2013
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Ormai da un po’ di tempo a questa parte, la questione dei beni comuni si è affermata nel dibattito culturale tout court; tuttavia proprio l’espressione “beni comuni” continua ad essere assolutamente vaga. Filosofi, giuristi ed economisti, da diverse angolazioni, hanno affrontato il tema in incontri e dibattiti ma ancora tutto, o niente, sembra poter essere, o diventare, un bene comune.
Non c’è da stupirsi fosse anche per una ragione immediatamente evidente: il dibattito sul tema è piuttosto recente e molto vivo e, quindi, ancora in divenire; inoltre, non c’è da rimanere sorpresi per – almeno – un altro motivo: forse il concetto di “proprietà” è più limpido, concreto o “reale”1?
Ma è lo stesso tema dei beni comuni ad essere sfaccettato ed i concetti che ne rappresentano la posta in gioco afferiscono a discipline diverse e talvolta a visioni del mondo contrapposte. Infatti, vi sono autori che hanno proposto “manifesti”, altri hanno reclamato “non-manifesti”, mentre altri ancora schierandosi “contro” i beni comuni li prendono molto sul serio2; nuovamente ed ancora l’oggetto di studio “beni comuni” rivela tutta la sua complessità in queste differenti espressioni teoriche.
Forse la volontà di definizione è un assillo principalmente giuridico ma non per questo va sottovalutata: se è vero che una parola passepartout ben si adatta in contesti politici di lotta, è ugualmente vero che un percorso di riforma – anche radicale – deve essere accompagnato ad un certo rigore terminologico3.
Da un punto di vista giuridico, una prima formulazione del concetto è avvenuta dall’elaborazione in seno ai lavori della cd. Commissione Rodotà4. In tale prospettiva, parlare di beni comuni significa riflettere sulla proprietà di un bene non a partire dal soggetto che ne è titolare ma concentrandosi sulla funzione che tale bene può svolgere all’interno di una comunità; da ciò è possibile far discendere una prima definizione: i beni comuni sono quei beni funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità e devono essere tutelati e conservati in favore delle generazioni future5. In quest’ottica, non è più tanto rilevante l’appartenenza del bene (proprietà pubblica o privata), quanto la sua gestione che deve coinvolgere i soggetti interessati e garantire l’accesso aperto a tutti per l’esercizio di diritti fondamentali.
Da un punto di vista economico l’elaborazione più rilevante è quella di Elinor Ostrom6 che muove dalla classica distinzione dei beni in ragione della loro esclusività e rivalità7; così i beni comuni sono beni non escludibili ma rivali ossia, detto diversamente, nessuno può essere escluso dall’uso di tale bene ma l’uso da parte di un soggetto limita l’uso da parte di un altro soggetto, classico esempio è quello del pascolo8. Tuttavia la Ostrom ha dimostrato che una gestione dei beni comuni da parte delle relative comunità risulta essere più efficiente di quella pubblica (affetta da sprechi) o privata (a rischio d’essere elitaria) nonché maggiormente sostenibile nel tempo; la comunità di gestione, grazie ai rapporti di fiducia, collaborazione e rapida comunicazione, può assicurare un uso dei “propri” beni comuni capace di resistere anche al consumo predatorio evitando, di conseguenza, la privatizzazione o la statalizzazione.
Ma oltre al dibattito teorico numerose sono le esperienze che si pongono attivamente al centro della questione. In particolare, il Teatro Valle Occupato9 di Roma risulta essere un fulcro rilevante nell’elaborazione e nella pratica dei beni comuni per almeno un duplice motivo; da un lato l’edificio-teatro in sé appare come un bene comune per il suo valore storico-artistico, degno di essere tutelato e reso accessibile a tutti; dall’altro, le attività all’interno del teatro, l’elaborazione culturale, le rappresentazioni artistiche, risultano costituire una pratica di produzione di saperi comuni in quanto aperti e partecipati.
Ecco che, almeno sommariamente, è già evidente come il dibattito sia complesso e sfaccettato per la diversità di approcci teorici ed esperienze pratiche. Siamo di fronte ad un dialogo interdisciplinare che appare difficile ma non impossibile.
Proprio in ragione di ciò, il testo a cura di Lorenzo Coccoli, Commons / beni comuni. Il dibattito internazionale (edizioni goWare ebook), ci viene in soccorso aiutandoci ad individuare un possibile sentiero tra le tante tracce talvolta divergenti. In questo testo il Curatore presenta una serie di contributi eterogenei tra loro (tutti di autori stranieri) ma ben collegati dall’introduzione del Curatore stesso; difatti, nell’introduzione si affronta la questione a partire da un’analisi storico-genealogica che individua nel fenomeno delle enclosures la prima forma di privatizzazione dei beni comuni e ciò si pone come condizione per la nascita del capitalismo moderno attraverso l’accumulazione originaria descritta da Marx. E così, in questa morsa, si dà «l’origine di quella opposizione complementare di pubblico e privato che disegna apparentemente senza resti la struttura politica e giuridica della modernità occidentale».
Ecco che, da questo momento, la storia dei beni comuni può essere letta in controluce come una narrazione delle sottrazioni di risorse comuni in favore dello sviluppo capitalistico; una storia che ci porta fino alle contemporanee privatizzazioni (non solo di beni materiali) ed affidamenti in gestione di servizi pubblici.
Inevitabilmente, la progressiva spoliazione dei beni comuni ha determinato che la discussione sul tema andasse via via scomparendo; tuttavia, il dibattito si rinnova improvvisamente nel 1968 con il noto articolo del biologo Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons. Così, puntualmente, il testo a cura di Coccoli, dopo l’introduzione cui si accennava, si apre proprio con questo celebre articolo cui segue (anche cronologicamente, 1969) l’articolo di Elinor Ostrom, Collective Action and the Tragedy of the Commons; si tratta di una vera e propria risposta a Hardin che sancisce in modo definitivo (fin dall’evidenza dei titoli) la ri-emersione del dibattito intorno ai beni comuni: una discussione che sarà vastissima, interdisciplinare, multiforme e trasversale di cui il testo di Coccoli ci offre un illuminante spaccato.
Infatti, dopo i due testi già citati, l’articolo di Lawrence Lessig, Commons and Code (1999), indaga il rapporto tra beni comuni e tecnologia informatica ponendo il problema delle restrizioni alla proprietà intellettuale; mentre il quarto articolo, di Naomi Klein, Reclaiming the Commons (2001), percorre le rotte della resistenza alla globalizzazione neoliberista «costruita a scapito del benessere umano a livello locale» e quindi vòlta alla privatizzazione dei beni comuni. All’intersezione dei precedenti testi si colloca l’articolo di Vandana Shiva, The Enclosure and Recovery of the Biological and Intellectual Commons (2002): biodiversità e saperi tradizionali indigeni costituiscono risorse comuni e ogni loro recinzione, attraverso brevetti e diritti di proprietà intellettuale, rappresenta «un furto ai danni della gente che possiede in comune quelle risorse, e porta alla loro perdita». Il quinto articolo proposto, di Massimo de Angelis, Reflections on Alternatives, Commons and Communities (2003), esamina la possibilità di costruire un nuovo mondo partendo dal basso, a partire cioè da «due principali pratiche: la riconquista e/o la rivendicazione dei beni comuni e la pratica (di apprendimento) delle comunità»; l’articolo successivo, di Donald M. Nonini, The Global Idea of the Commons (2007), offre spunti interessanti sul concetto generale di beni comuni e sulla crisi del capitalismo contemporaneo. Settimo articolo inserito nel volume è A New Politics of the Commons (2007) di David Bollier, dove si afferma che «i beni comuni possano svolgere un ruolo fondamentale di riordino delle tematiche culturali e politiche» e perfino porsi come nuova visione del mondo; l’ottavo contributo consiste nell’articolo di Silvia Federici, Feminism and the Politics of the Commons (2010), che affronta la relazione tra beni comuni e comunità da un punto di vista femminista. Il nono e penultimo articolo è di Peter Linebaugh, Enclosures from the Bottom up (2010), e consiste in una complessa riflessione a partire dalla rivolta di Otmoor (1829) quando, a seguito del tentativo del governo britannico di recintare le vicine terre comuni, si scatenò un’imponente resistenza locale. L’ultimo articolo è il testo di Michael Hardt, Two Faces of Apocalypse. A letter from Copenhagen (2010), che affronta il tema del comune indagandone le antinomie a partire dalla incisiva considerazione per cui «il comune sta senza dubbio diventando il terreno centrale della lotta politica in contesti politici molto diversi».
Ma, come si accennava, non si tratta solo di una rassegna di autori internazionali; Coccoli non esita ad affermare un proprio punto di vista: i beni comuni potrebbero rappresentare un “significante vuoto” capace di legare istanze sociali, altrimenti non assimilabili, entro un unitario orizzonte comune di lotta che si connoti, in negativo, per l’estraneità dai meccanismi del neoliberismo economico e, in positivo, per la produzione di legami comunitari. Un’istanza teorica questa che, come dice lo stesso autore, si presenta alla maniera di «un progetto ambizioso, certo, ma forse mai così attuale».
Ecco che di fronte all’attualità e all’ambizione di un tale progetto, la riflessione deve essere profonda affinché si possa dare un’articolazione tra teoria e pratica dei beni comuni capace di incidere sulla realtà. Inevitabilmente, una tale articolazione deve coinvolgere, come avviene nel testo di Coccoli, saperi eterogenei che possano così confrontarsi e scontrarsi per essere produttivi.
Si tratta di una sfida difficile e avvincente soprattutto per il giurista che viene messo di fronte ad un radicale ripensamento di nozioni e categorie ritenute, a torto, immutabili.
Difatti, il potere e il diritto appaiono sempre più frammentati, dislocati, senza territorio-nazione e senza cittadini-popolazione, in favore di un ambito di applicazione che coinvolge il mondo intero globalizzato; ciò induce un ripensamento critico che attraversa la tradizionale teoria politico-giuridica della sovranità statale in ragione sia dei mutamenti della struttura economica, sempre più tesa ad una sua finanziarizzazione, sia dall’emersione della governamentalità neoliberale.
Così, in buona sostanza, si realizza un duplice effetto: da una parte si assiste alla privatizzazione del pubblico, dall’altra il privato è sempre più concentrato nelle disponibilità di pochissimi. In questo contesto, i beni comuni sfuggono al potere economico mercatista nella misura in cui non sono escludibili e quindi non possono essere messi a profitto di pochi privati e al contempo la caratteristica della rivalità impone gestioni comunitarie distanti anche dal potere pubblico.
Allora, fondamentalmente, e in questo sta la difficoltà pratica più densa, affermare l’esistenza giuridica dei beni comuni significa attribuire alla comunità la gestione di risorse (comuni) che vanno dall’acqua, alle foreste, alla produzione culturale, proprio perché tali beni-risorse esistono e continuano ad esistere grazie alla cooperazione sociale; anzi forse possono continuare ad esistere solo grazie alla cooperazione sociale. Si tratterebbe, potremmo azzardare, di risorse che da sempre hanno visto impegnata la comunità, una comunità che ha prodotto tali risorse, le ha costituite, mantenute, riprodotte e conservate, una comunità quindi che ne sarebbe proprietaria fin dall’origine ma, attualmente, spossessata in favore del pubblico o del privato.
Pertanto una riflessione che muova da queste – precarie – considerazioni sui beni comuni dovrebbe porsi come un tentativo di superare la distinzione pubblico-privato per costituire un concetto differente di normatività a partire dalla risposta alla fondamentale domanda: se sia possibile liberare la produzione di norme dalla loro realtà oppressiva e dicotomica pubblico/privato in favore di un diritto “del comune”10.
Forse una possibile prospettiva, in sintonia con la conclusione dell’introduzione di Coccoli, è quella di produrre un sapere giuridico a partire dalle pratiche reali, un sapere che possa costituirsi in una massa critica capace di spingere la pratica del diritto oltre la logica proprietaria e predatoria, sia essa pubblica o privata.
Il testo di Coccoli è dunque una antologia ampia nel tempo e nello spazio: dalla ri-emersione dei beni comuni con la “tragedia” di Hardin del 1968 fino all’attualità del “comune” di Hardt e tutto ciò tra Chiapas e Cochabamba, tra Seattle e Genova, passando per l’India e il virtuale di Internet.
In questa narrazione, infine, si riscontra un pregio notevole e indiscutibile: nella vastità del dibattito, Coccoli ci dà tutti i presupposti essenziali e, allo stesso tempo, riporta fedelmente quanto la discussione sia complessa e sfaccettata; così gli interrogativi si stagliano chiaramente all’orizzonte ma il testo ci dirada ogni incertezza: affrontare la questione è la risposta alla complessità contemporanea.

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