Tabula rasa

Arnoldo Mondadori, 2006
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Immaginiamo la mente come una tavoletta immacolata su cui viene inciso il carattere grafico che si vuol conservare nel tempo. Tale tavoletta, proprio in quanto precedentemente intatta e liscia, conserverà quel carattere esattamente con la forma con la quale è stato inciso. Se la mente è una «tabula rasa», essa conserverà la forma che in essa sarà impressa dall’esperienza dei sensi, unica fonte di “scrittura” per essa. È ancora scientificamente valido parlare della mente secondo tale metafora? Sembra di no. Scomodando il preistorico personaggio di cui parlò Wilfrid Sellars, Pinker si chiede quale sia questo «elusivo fattore Mr Jones» che interviene nella formazione della nostra personalità e intelligenza prescindendo, in parte, dai geni – trovandosi infatti nell’ambiente in cui cresciamo – e che sfugge ad ogni criterio di analisi scientifica.

Questo il tema, in fondo, dell’intero volume Tabula rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali (Arnoldo Mondadori, 2006) dello psicologo Steven Pinker, direttore del Centro di neuroscienza cognitiva al MIT: la “lotta” scientifica di ambiti di ricerca quali la genetica del comportamento, la psicologia evoluzionistica, la teoria computazionale della mente e la neuroscienza cognitiva contro “miti” come quello della Tabula rasa, del “Buon selvaggio” e dello “Spettro nella macchina”, insieme al comportamentismo, al costruzionismo sociale e teorie simili.

In più di 600 pagine, tale scontro viene mostrato passo dopo passo, in ognuna delle sei parti di cui si compone il volume, cominciando da una storia del concetto di Tabula rasa e da una rassegna delle teorie ad essa legate, passando per una panoramica sulle nuove «scienze della mente, del cervello, dei geni e dell’evoluzione», chiarendo successivamente le paure legate all’accogliere teorie scientifiche che smentiscono la Tabula rasa, e infine rilevando i nessi che le contrapposte teorie hanno con la politica, la pedagogia, la psicologia, la società e le arti.

Nella prima parte l’autore si sofferma brevemente sulle origini storiche di “credenze”, oggi molto diffuse ma sempre più in rotta di collisione con la scienza, quali sono quelle sulla plasmabilità dell’uomo, sulla sua bontà connaturata e sull’esistenza di un’anima immateriale che gli conferisce un libero arbitrio, rintracciando tali origini in concezioni di matrice empirista, romantica e dualistica: innanzitutto la nascita dell’empirismo moderno ad opera di Locke e del suo “foglio bianco”, poi il mito rousseauiano della natura “buona” dell’animo umano, infine la dottrina dello “spettro nella macchina” di cui parla Gilbert Ryle a metà del Novecento, sulle orme della filosofia cartesiana. Tali filosofie, alle quali va aggiunto il comportamentismo che Watson fondò a partire dall’associazionismo dello stesso Locke e Mill, sono assolutamente indipendenti tra loro, come precisa Pinker, eppure «le si ritrova spesso insieme». Il sottile quanto fondamentale legame che tiene unite tali concezioni consiste nel loro approccio alla moralità e alla libertà individuale. Come afferma lo psicologo, «se la tabula è rasa, a rigor di termini non contiene ingiunzioni né a fare il bene né a fare il male […] ma bene e male sono asimmetrici […] dunque una tabula rasa […] ci colpirà di più per la sua incapacità di fare il male che per la sua incapacità di fare il bene [difatti] tutti noi, non solo Rousseau, associamo ciò che è privo di segni alla virtù piuttosto che al nulla»; inoltre «una tavoletta priva di segni […] è un posto accogliente per uno spettro [dacché] quanto più è “qualcosa di non meccanico” a controllare il comportamento» tanto meno la nostra mente ha bisogno di meccanismi biologici innati per agire; allo stesso modo – conclude l’autore – «lo Spettro nella macchina si accompagna felicemente al Buon selvaggio: se la macchina si comporta in modo ignobile, possiamo prendercela con lo spettro, che ha liberamente scelto azioni spregevoli, senza dover verificare se esiste un difetto di progettazione» (p. 23).

A questo punto, l’intento dell’autore è mostrare che tali concezioni sono scientificamente infondate. Le «idee inedite» che gettano dei ponti tra il mondo biologico e quello culturale sono quattro.

  1. La scienza cognitiva, le cui posizioni «rivoluzionarie» sono riassunte in cinque punti nodali, ovvero: (1) «il mondo mentale può essere radicato nel mondo fisico tramite i concetti di informazione, computazione e feedback» (p. 45); (2) la tabula rasa non spiega l’apprendimento, mentre è necessario spiegare come la mente riconosca e associ segni e rifletta su di essi; sulla questione Pinker ammette la radicalità delle posizioni all’interno del cognitivismo, con da un lato Chomsky e Fodor che ritengono innati praticamente tutti i concetti e dall’altro i connessionisti come Rumelhart e McClelland che ritengono impossibile una tabula totalmente rasa poiché «in effetti tutti i modelli connessionistici fanno necessariamente delle ipotesi, che vanno viste come vincoli innati» (p. 50); (3) «da un numero finito di programmi combinatori nella mente può essere generata una gamma di comportamenti infinita» (p. 50); (4) «a variazioni superficiali fra una cultura e l’altra possono essere sottesi meccanismi mentali universali» (p. 52); (5) «la mente è un sistema complesso composto da molte parti interagenti» (p. 55), i moduli computazionali generativi universali. Per Pinker, dunque, la “flessibilità” dell’uomo sta nel suo essere “programmato” per generare una serie illimitata di pensieri e comportamenti che possono variare in base alla cultura ma non quanto a struttura.
  2. La neuroscienza (cognitiva), che ha mostrato come neanche il cervello sia una tabula rasa: «l’anatomia globale del cervello […] è in gran parte modellata dai geni nel normale sviluppo prenatale» (p. 60).
  3. La genetica del comportamento, che con esperimenti su gemelli monozigotici (cresciuti anche separatamente) e «virtuali» (cioè bambini adottati ma cresciuti insieme nello stesso ambiente) ha mostrato come differenze mentali e comportamentali possano derivare da differenze genetiche.
  4. La psicologia evoluzionistica, che spiega come la mente – assolutamente lontano dall’essere una tabula rasa – è frutto di competizione darwiniana, escludendo così la possibilità di una mente totalmente «malleabile» dall’ambiente e dai competitori; Pinker inoltre dimostra che «aveva ragione Hobbes e torto Rousseau» (p. 75) sul pacifismo dei selvaggi: studi affermano che le società prestatuali presentano un tasso di violenza, aggressività e guerre molte volte superiore a quello degli stati europei e americani.

Le ultime sfide della teoria, che viene così delineandosi, di una “natura umana complessa” sono tre: (a) il Progetto genoma umano, (b) i modelli computerizzati di reti neurali a base cognitivista, (c) gli studi sulla plasticità neurale. Per quanto riguarda (a), il fatto che il numero di geni del DNA umano (34.000) sembri essere relativamente inferiore alle aspettative non ha alcuna importanza dato che la complessità di un organismo non è legato assolutamente a tale numero (bisogna considerare che ogni gene produce parecchie proteine e che viene contato solo il 3% del genoma umano, cioè la parte che codifica proteine, ma è stato dimostrato che la parte non codificante, il 97%, ha ruoli sconosciuti quanto importanti nell’ontogenesi). Per quanto riguarda (b), i limiti del connessionismo sono evidenti: principi logici come la composizionalità, la quantificazione, la ricorsività e il ragionamento categoriale, oltre la distinzione tra classe e individuo, risultano di banale applicazione per un uomo, ma ardua per i circuiti detti “d’apprendimento”. Per quanto concerne infine (c), si tratta della capacità fisica dell’organismo di apprendere e svilupparsi e non della plasmabilità del cervello sotto la pressione dell’esperienza; si è anzi scoperto che parti del cervello riescono a organizzarsi senza alcuna informazione dai sensi.

Nella seconda parte del volume, Pinker affronta le reazioni, soprattutto di ordine politico, alla teoria della natura umana che si va delineando, da parte di studiosi che Pinker definisce «radical», come Stephen J. Gould, Richard Lewontin, Steven Rose e altri, che accusano di riduzionismo e determinismo studiosi come E. O. Wilson e Richard Dawkins, per aver gettato un ponte tra genetica e empirismo, operazione inaccettabile per le loro posizioni estremiste. Inoltre, ritenendo razzismo, sessismo, guerra e ineguaglianza politica non imputabili alla natura umana ma alla cultura, tali «moralisti» non possono accettare la teoria di una natura umana complessa che ricolloca nell’alveo naturale tali attitudini “scomode”.

Nella terza parte Pinker mostra l’infondatezza del timore che senso dell’esistenza e moralità vengano intaccate da tale teoria, paura consistente nel ritenere che: 1. se le persone sono diverse a livello innato allora si giustifichi l’oppressione o la discriminazione (cioè pregiudizio, darwinismo sociale ed eugenetica), 2. se le persone sono immorali a livello innato allora ogni speranza di perfettibilità dell’essere umano sia vana, 3. se le persone sono prodotti della biologia allora il libero arbitrio sia solo un mito dunque che nessuno sia più responsabile delle proprie azioni, o tantomeno che la vita non abbia più un significato e uno scopo superiori. Nel primo caso va detto che le scoperte scientifiche hanno gettato «molta più luce sull’unità psicologica degli esseri umani che su qualunque differenza tra loro» (p. 179), e poi che vanno sempre distinte le scienze della natura umana dalle «catastrofi morali del ventesimo secolo» che proprio quelle scienze possono tentare di spiegare ma mai giustificare. Più in generale, seguendo l’insegnamento di Hume, Kant e Sartre per cui «comprendere non è perdonare» (p. 223), Pinker individua nei ragionamenti accademici attuali una «fallacia moralistica» per cui «se si spiega qualcosa in termini biologici, lo si “legittima” [e] se si afferma che qualcosa è adattivo, lo si “nobilita”» (p. 202); ciò comporterebbe «la persecuzione di chi ha successo, un’ingegneria sociale invasiva, l’incomprensione della logica della giustizia, la svalutazione della vita umana sulla terra» (p. 239). Seguendo invece le orme della seconda critica kantiana, riguardo al senso della vita l’autore afferma: «se siamo fatti in modo tale da non poter evitare di pensare in termini morali […], allora la morale è reale per noi come se fosse decretata dall’Onnipotente o scritta nel cosmo. E lo stesso si può dire per altri valori umani coma amore, verità e bellezza» (p. 239).

Nella quarta parte si passano al setaccio le implicazioni che la teoria della natura umana complessa produce nella vita pubblica e privata di ogni individuo, partendo dal presupposto che in ogni ambito – dalla cognizione ai media, dalle arti alle politiche scolastiche e pedagogiche, dalla famiglia alla sessualità, dall’organizzazione sociale al crimine – si ricorre sempre ad una qualche concezione della natura umana. L’autore intende discernere cosa è legato a miti come la Tabula rasa e cosa invece si concilia con quello che si può definire il suo “innatismo bilanciato”. Il perno su cui ruota la questione etica si pone nei seguenti termini. Ai dilemmi morali scottanti – quali aborto, eutanasia, diritti degli animali, etc. – non c’è soluzione, perché essi emergono dall’incommensurabilità della psicologia intuitiva da una parte «con il suo concetto tutto-o-niente di persona o di anima» e, dall’altra, dei dati della biologia «che ci insegna che il cervello umano è evoluto gradualmente, si sviluppa gradualmente, e altrettanto gradualmente può morire»: l’intuizione morale non sempre può soddisfare. Difatti Pinker, sulla scorta del pensiero di Ronald Green, esperto di bioetica, pensa che «dallo sforzo di trovare un confine in natura si deve passare a quello di decidere un confine che costituisca, per ogni singolo problema, il migliore compromesso possibile fra i mali e i beni in conflitto» (p. 281). D’altra parte però lo stesso Hume, diffidando di chi fonda la morale sulla sola ragione, ebbe a dire che «non è contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero per non graffiarmi un dito» (p. 342).

La quinta parte presenta tanti capitoli quanti sono i problemi «scottanti» presi in esame: la politica, la violenza, i generi sessuali, i figli e le arti. Il primo capitolo tenta di mostrare come «essere di destra» o «essere di sinistra» siano possibilità genetiche, o, per meglio dire, che certe peculiarità caratteriali innate conducono un numero probabilisticamente alto di volte a preferire una parte o l’altra, a vedere la vita in ogni suo aspetto «da conservatori o riformisti», l’una parte ispirata al motto marxiano «da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni», l’altra a quello smithiano per cui gli individui che prendono decisioni nel proprio interesse faranno l’interesse anche della società intera. Nonostante ciò, è oggi necessario che ogni fazione politica riconosca come basilare l’emergente teoria della natura umana. Il secondo capitolo ribalta il detto di Ortega y Gasset «la guerra non è un istinto, ma un’invenzione» (p. 378), a favore della concezione hobbesiana in cui «la dinamica della violenza si sviluppa dalle interazioni fra agenti razionali mossi da interesse personale» (p. 391). Nel terzo capitolo Pinker intende mostrare come sia possibile conciliare «la possibilità che uomini e donne non siano psicologicamente identici», ovvietà biologica, con un autentico femminismo che non tema proprio la diversità biologica e che non diventi sterile movimento accademico. Il quarto capitolo denuncia la disattenzione da parte di molti psicologi delle «tre leggi della genetica del comportamento» in base alle quali: i. ogni tratto comportamentale umano è ereditabile, ii. l’effetto di crescere nella stessa famiglia è minore dell’effetto dei geni, iii. gli effetti dei geni o della famiglia non rendono conto di buona parte della variazione nei tratti comportamentali umani complessi (p. 457). Secondo Pinker, «la socializzazione dei bambini, l’acquisizione da parte loro dei valori e delle competenze della cultura, [avviene] nei gruppi di coetanei, non in famiglia» (p. 484), non trascurando – come spesso avviene – il peso del puro caso in questi processi. Trattando di cultura artistica, nell’ultimo capitolo lo psicologo accusa modernismo e postmodernismo di aver allontanato le forme artistiche dai sensi, loro luogo naturale, avvicinandole a categorie stranianti e antinaturalistiche – come il brutto o l’astratto –, trascurando così aspetti evolutivi dell’arte: capacità tecnica, imitazione, capacità di giudizio, attenzione, immaginazione e «brama di status» secondo una psicologia del prestigio, «con il suo apprezzamento del raro, del sontuoso, del virtuosistico e dello stupefacente» (p. 504).

Nella conclusiva sesta parte, Pinker accusa la Tabula rasa di essere un’«astrazione teorica contro la vita, contro l’uomo» (p. 515), e lascia il compito di riassumere le proprie tesi a brani letterari, tra cui spicca un passo di Emily Dickinson piaciuto già anche al neurobiologo Gerald Edelman (cfr. p. 518), per cui

È più vasto del cielo – il cervello –
prova a metterli accanto –
e l’uno l’altro conterrà sicuro –
ed inoltre – anche te –.

Questo saggio di psicologia, che va premiato per la neutralità con cui affronta determinate tematiche senza temere di toccare temi scottanti anche se forse pecca in eccessive coloriture politiche nel trattare un argomento che si presume debba rimanere filosofico perciò libero, sembra concedere come ovvietà – rimprovero che lo stesso Fodor farebbe – che il cognitivismo sia in perfetta sintonia con le scienze della natura e della vita quasi fossero complementari, dimenticando tutti gli aspetti che tengono ancora distanti la scienza cognitiva da una scienza, a fortiori da una scienza della vita come la biologia o la genetica. Nonostante ciò esso dimostra implicitamente che: 1) le politiche sociali, le interazioni tra gli uomini e la cultura umana di ogni epoca non possono prescindere da ben precise assunzioni filosofiche di fondo; 2) la filosofia rappresenta inevitabilmente l’impresa di «decidere il confine», di volta in volta, tra bene e male nei dilemmi di carattere etico, davanti a cui la scienza si arresta; 3) natura e cultura rappresentano i due poli magnetici della stessa sfera celeste che è l’Uomo, una specie che non può più permettersi di pensare se stessa come interamente pre-codificata nella natura né come arbitrario fattore della propria cultura.

3 responses to “Tabula rasa

  1. sono stupitissimo di quanto poco abbia pubblicato di scientifico e tanto di divulgativo questo Pinker, eppure lavora al MIT, d'altra parte ha un crriculum su pubmed del tutto trascurabile e allora come mai? Il vero papà della critica scientifica al libero arbitrio penso sia Benjamin Libet, le cui costruzioni teoriche si fondano (o almeno ci provano) su precisi esperimenti neurofisiologici. Viene descritto (Pinker) ocme una delle persone più influenti al mondo, ma perchè? Non ci arrivo proprio, qualcuno mi sa dire qualcosa in merito?

  2. Pinker ha fatto anni fa importanti lavori di psicologia cognitiva sul riconoscimento degli oggetti.

    Attualmente fa il divulgatore, ma con capacità.

    Gius

  3. Mi sembra lapilassianamente ovvio che una persona influente debba essere un buon divulgatore. Altrimenti sarà ben difficile che influenzi alcunchè.
    Ed è altrettanto ovvio che un buon divulgatore e quindi influenzatore non necessariamente deve aver scoperto o inventato tutte le cose che va spiegando alla gente.
    The "blank slate" ed è uno dei libri più belli e completi che mi sia mai capitato di leggere.

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