La scatola chiusa

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Il 14 Agosto del 1945 ebbe ufficialmente fine la seconda guerra mondiale. Ma davvero con la sconfitta militare dei nazionalsocialismi si è ottenuta anche la sconfitta dei precetti culturali alla base dell’idea nazionalsocialista di società?
In una scena del film di Tarantino Inglourious Basterds (titolo volutamente scorretto che è già divenuto un cult) il tenente Raine (interpretato da Brad Pitt) incide sulla fronte dell’ex colonnello nazista Hans Landa, passato dalla parte degli alleati, una svastica con un coltello. Andando oltre l’immediato rimando alla macabra figura di Charles Manson (noto criminale statunitense processato per diversi omicidi, da cui il nome d’arte della rockstar Marylin Manson), il significato è semplice: Io ti devo poter riconoscere. L’alto ufficiale nazista, che ha venduto tutta la catena di comando del Fuhrer agli alleati, non è un uomo cambiato, ma solo il frutto di un compromesso politico. Non è un caso che la figura del traditore nazista venga assegnata da Tarantino ad un alto ufficiale: è una perfetta metafora. Vi sono anche stati, come emerge da una recente indagine del Dipartimento di Giustizia Americano, casi in cui la CIA coprì alcuni importanti personaggi provenienti dalle fila del nazismo per sfruttare il loro operato. Scrive Angelo Aquaro, su La Repubblica del 15 Novembre 2010:

Lo scalpo del dottor Mengele nel cassetto del Dipartimento di Giustizia sembra il particolare di un film di Tarantino: è invece la prova di uno scandalo tenuto nascosto per anni. Il governo degli Stati Uniti ha taciuto la verità nella caccia ai nazisti. Non solo ha fatto niente o poco per assicurarsi la cattura dell’Angelo della Morte di Auschwitz. Addirittura ha coperto per decenni i criminali di Hitler offrendo sicuro riparo da questa parte dell’Atlantico. Di più. Tributando ad alcuni tutti gli onori del caso: come dimostra la vicenda di uno scienziato tedesco che contribuì alla conquista dello spazio e fu insignito dalla Nasa con la più alta delle onorificenze1.

Solo recentemente, continua Aquaro, il presidente Obama ha deciso di delegare la divulgazione dei documenti dell’inchiesta al Dipartimento di Giustizia e, nonostante questo, pare che solo il New York Times sia riuscito a entrare in possesso di una copia completa del documento. Gli Stati Uniti, insomma, rappresentarono di certo un rifugio sicuro per i perseguitati dai nazisti, ma non disdegnarono di “coprire” anche in misura minore alcuni dei persecutori: è il caso di Arthur L. Rudolph (lo scienziato premiato dalla Nasa e che a suo tempo gestì la fabbrica di munizioni di Mittelwerk), di Otto Von Bolshwing (che morì nel 1981 all’età di 72 anni mentre gli 007 stavano elaborando dei piani per deportarlo per evitare che venisse a galla il suo passato) e, forse, di Josef Mengele, l’«Angelo della Morte» di Auschwitz. Se, dunque, gli Stati Uniti hanno protetto e sfruttato in alcuni casi l’abilità di alcuni scienziati o uomini di comando nazisti, può anche sorgere il sospetto che qualcosa sia rimasto, nella nostra società e negli Stati più potenti del Dopoguerra, dell’idea nazista di società. È questo il significato del marchio sulla fronte dell’ufficiale nazista da parte del tenente Raine.

La foto ritrae il famoso criminale statunitense Charles Manson (Cincinnati, Ohio, 1934), che si incise una svastica sulla fronte durante il periodo di carcerazione a cui fu condannato per una serie di efferati omicidi.

Le figure assegnate ai ruoli di comando nelle due superpotenze post-belliche, capitalismo americano e comunismo sovietico, hanno carpito e fatto proprio molto della logica di controllo delle masse nazionalsocialista. In pratica, Tarantino vuole dirci che tanto è stato imparato dalla nostra élite dalla filosofia nazista di controllo delle masse. Questo è sottolineato anche chiaramente, nella pellicola, dall’insistenza sulla figura di Joseph Paul Goebbels, il terribile ministro della propaganda nazista. Goebbels fu l’artefice del successo dell’ideologia nazionalsocialista: l’uso di cinema, radio, giornali e organizzazioni al fine di stabilire ciò che è giusto credere. Gestione completa della cultura ufficiale e distruzione delle culture particolari; il credo nazionalsocialista si impose come visione totale del mondo. Fermiamoci un attimo: cosa è cambiato nell’industria culturale ai giorni nostri? Siamo davvero in grado di poter riconoscere quello che non è cambiato? È davvero cambiata la gestione dell’industria culturale nelle società americana e sovietica dopo la guerra? È cambiata qualcosa nella società che stiamo vivendo, nella società a noi contemporanea?
La seconda metà del XX secolo è stato il periodo del progressivo affermarsi delle grandi industrie multinazionali, delle grandi catene di negozi a scapito della piccola imprenditoria. Dell’affermarsi dei grandi gruppi editoriali, delle grandi aziende televisive a scapito dei piccoli giornali e delle radio. Grandi capitali, grandi industrie, grandi giornali, centri commerciali. Tutto è grande, in modo inquietante. Tutto sembra essere fuori la portata di noi “comuni mortali”. Tutto viene gestito eliminando i canali non ufficiali e la piccola concorrenza. L’impressione è che tutto sia gestito dall’alto, come ai tempi del Reich. Certo, c’è la libertà di parola. Ma a che serve la libertà di parola quando non si ha più nulla da dire? La critica ammessa è critica di un aspetto, mai delle basi della nostra società. Ormai tutti noi abbiamo interiorizzato il fatto che sia necessario riempire la nostra vita di accessori, vestiti alla moda, automobili sempre più costose. Il fatto che si potrebbe spendere i soldi in un altro modo, investire denaro in un altro modo, è totalmente estraneo alla sfera delle possibilità. Noi possiamo solo scegliere le sfumature, attraverso il ritratto di uomini “politici” di uno o di un altro schieramento che ci viene fornito dalla macchina mediatica posseduta da coloro che il potere ce l’hanno già. Ora mi chiedo: è così diverso il modo in cui viene gestita la cultura oggi? Scrive Pier Paolo Pasolini:

È astratto, disumano e stupido, invece, chi pronuncia facili condanne contro interi periodi della storia umana in cui il ‘popolo’ ha risposto alla sottomissione con la rassegnazione. Il momento dello spirito di tale popolo che fosse potenzialmente rivoluzionario trovava sempre il modo di esprimersi altrimenti: magari proprio attraverso la rassegnazione e, soprattutto, attraverso la totale estraneità alla cultura della classe dominante2.

Nel corso della storia, l’estraneità nei confronti della cultura dominante è stato per Pasolini dunque il fattore decisivo nel permettere ogni rivoluzione e ogni opposizione ad ogni regime. L’esistenza di una cultura diversa significa l’esistenza di valori differenti di riferimento, significa una diversa visione della vita e del mondo. In Italia nemmeno il fascismo, continua Pasolini, riuscì nell’annientamento di culture secolari come quelle contadine delle diverse regioni del Bel Paese. Al contrario la società dei consumi “ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare e di vivere, altri modelli culturali”. L’accusa alla cultura ufficiale è quella di puntare alla riproduzione di un tipo d’uomo perfettamente funzionale a un determinato sistema economico e sociale. E se per Pasolini nemmeno il fascismo in Italia riuscì nell’operazione di totale annientamento delle culture particolari non ufficiali, tale operazione è stata portata avanti certamente in modo più efficiente dal nazionalsocialismo in Germania e dal regime comunista in Russia, durante la prima metà del XX secolo. Il punto è se non sia sopravvissuto qualcosa di tale impostazione nella società dell’immediato dopoguerra e, di riflesso, nella nostra società. Pasolini suggerisce di sì.
È mai esistita una corrente filosofica, un istituto culturale che, nel corso del Novecento, ha fissato il proprio scopo nell’analisi critica della società che si stava configurando e che si sta tutt’oggi venendo a creare? Una corrente culturale che si impegnò a mettere in evidenza gli aspetti pericolosi di una società basata su grandi poteri, economici e politici, capaci di determinare di fatto la vita degli individui? La mia risposta è si. E tale istituto fu la Scuola di Francoforte. L’istituto, che nacque su iniziativa di Felix Weil nel 1922, accolse tra le proprie fila molti importanti studiosi (solo per citarne alcuni: M. Horkheimer, F. Pollock, T. Adorno, H. Marcuse) ed ebbe una storia particolarmente interessante. Nato in Germania nel periodo immediatamente precedente l’ascesa di Hitler, traslocò ufficialmente a New York dopo l’occupazione della Francia (1940), dove continuò la sua attività di ricerca. Gli studiosi francofortesi ebbero modo dunque di vivere sia la realtà della società nazionalsocialista che la realtà della capitalismo americano. Da questa esperienza storica e sociale, i membri della Scuola svilupparono una teoria della società che prese il nome di teoria critica; tale teoria:

attacca tutte le filosofie e le scienze che sacrificano l’individuo particolare alla totalità mistificata di un sistema (Hegel), all’Essere (Heidegger), alla «scienza» oggettiva (i positivisti come Karl Popper e Hans Albert), o al processo storico (Marx ed Engels). Tali teorie, profondamente eterogenee fra loro, hanno un elemento in comune: impongono la subordinazione del soggetto all’oggetto, del particolare al generale4.

Semplificando, la teoria critica puntava a sottolineare l’importanza dell’attenzione nei confronti del singolo individuo; un ordine sociale giusto è un ordine che viene costruito dall’individuo in funzione dell’individuo. Ciò significa che scienze politiche, filosofiche, economiche, sociali devono cooperare per la costruzione di una società orientata ai bisogni reali dell’individuo e non orientare al contrario l’individuo verso bisogni falsi. Cosa si intende per bisogni falsi? Ecco un esempio: l’anno scorso, vicino casa mia è stato aperto un grande centro commerciale di una nota catena nazionale. Ricordo che molte persone si piazzarono di fronte ai diversi ingressi della struttura fin dalle prime ore della mattina, consumando diverse ore di attesa. Per cosa? La grande maggioranza, per acquistare prodotti di elettronica in offerta promozionale. Ore e ore di fila, in alcuni casi liti e risse, per acquistare telefonini, lettori mp3 ecc. La prima cosa che ho pensato è stata: “Una volta queste cose succedevano per il pane”. Era talmente necessario poter entrare in possesso di certi prodotti da divenire un bisogno e da spingere molte persone ad ammassarsi spingendo e litigando per acquistarli. Ma, riflettendo un momento: avere l’ultimo lettore dvd, il telefonino più di moda, un televisore da 40 pollici al plasma è davvero necessario? Oggi pare di sì. Sia chiaro, non si discute qui sulla bontà del poter avere prodotti sempre migliori al fine di migliorare la qualità della vita. Si discute soltanto su che cosa considerare un bisogno primario, ai fini della qualità della vita. Io credo che avere una tavola imbandita la sera per cena sia più importante dell’avere il migliore telefonino. Ma questo non è il messaggio che passa nelle televisioni e nei media infarciti di propaganda pubblicitaria (con le parole di Goebbels, Die Propaganda ist eine Kunst, es spielt keine Rolle, ob sie die Wahrheit sagt: «La propaganda è un’arte, non importa se questa racconti la verità»). E la propaganda, com’è noto, è stata alla base del successo di ogni regime totalitario del Novecento (di qualsiasi colore politico). Nelle opere di molti studiosi della Scuola di Francoforte è incredibilmente forte questa consapevolezza; ed è molto significativo il fatto che gli studi della scuola in questo senso continuassero e abbiano dato alcuni tra i loro frutti più importanti successivamente alla fine della seconda guerra mondiale e alla sconfitta del nazismo. Vuol dire che essi sentivano che, a livello culturale e sociale, la fine della guerra e la caduta di Hitler non avevano spazzato via tutti gli aspetti di una delle più buie pagine della storia dell’umanità. Rifondare la società, ricostruirla democraticamente, comportava l’impegno di individuare e cambiare gli aspetti che avevano portato (e avrebbero portato, in diverse parti del mondo) alla nascita di regimi totalitari. Ogni totalitarismo, di ogni colore politico, sposta il principio fondante di una società dall’individuo alla società stessa. Contro questo meccanismo furono date alla luce molte delle opere degli studiosi della Scuola di Francoforte. Ne sottolineo due, in particolare, in merito al nostro discorso: la Dialettica dell’illuminismo, di M. Horkheimer e T. Adorno, del 1947, e L’uomo a una dimensione, di H. Marcuse, del 1964. Scrivono Adorno e Horkheimer:

L’indirizzo – determinato dall’economia – della società complessiva, che si è sempre imposto nella costituzione spirituale e fisica degli individui, atrofizza gli organi del singolo che agivano nel senso di un ordinamento autonomo della sua esistenza.
[La mercificazione] diventa universale proprio mentre, per la scomparsa della libera concorrenza, la «intrinseca» qualità della merce cessa di essere fattore decisivo ai fini della sua commerciabilità. I presidenti si vendono come le automobili; e appare irrimediabilmente antiquato il giudicarne le affermazioni politiche in base alla loro veridicità o falsità – ciò che le rende valide è la loro capacità di mantenere o acquistare voti5.

Si parla, dunque, della progressiva perdita da parte degli individui della capacità di orientare in maniera del tutto autonoma i fini della propria esistenza; non è certo un problema da poco. Il sottolineare tale incapacità non deve essere visto come un’accusa al singolo, al contrario. Adorno e Horkheimer vogliono sottolineare l’invadenza della società nei confronti della vita individuale. Esempio? Immaginiamo di essere un commesso in un centro commerciale. Lavoriamo 8/9 ore al giorno 5/6 giorni a settimana all’interno di un ambiente chiuso, assentandoci spesso con la mente per evitare di divenire parte anche noi di quella chiusura. Magari durante il turno di lavoro pensiamo a problemi quotidiani… le rate del mutuo, il pagamento delle bollette, la spesa da fare ecc. Finito il turno, ecco che arriva il nostro tempo libero, il tempo per poter dedicarci a noi stessi finiti gli obblighi lavorativi. Abbiamo fatto la spesa, pagato la bolletta e decidiamo di concederci un po’ di svago per evadere: decidiamo di andare a ballare o di andare al cinema. All’interno del cinema o del locale che abbiamo scelto, troviamo la pubblicità di una catena di negozi che sponsorizza il cinema o il locale, la pubblicità della stessa grande catena di ipermercati nel quale noi lavoriamo o magari la pubblicità dello stesso ipermercato in cui noi lavoriamo; non ci facciamo più caso e ci gustiamo il film o scendiamo in pista da ballo. Tornati a casa, ci laviamo i denti: la marca del dentifricio che stiamo usando è la stessa che è in promozione nel centro commerciale dove lavoriamo ecc. Morale? Non possiamo più uscirne. La macchina pubblicitaria, dei media e dei giornali entra senza che ce ne rendiamo conto in una quantità infinita di momenti della nostra vita. Sarebbe stupido non ammettere che tale invadenza arrivi a condizionarci. Adorno e Horkheimer scrivono anche che i presidenti si vendono come le automobili; non si presta attenzione ai contenuti dell’offerta politica che ci viene proposta, è più facile guardare l’estetica di un manifesto o semplicemente farci prendere dal candidato che riteniamo più carismatico. Sulla base di cosa? Della campagna elettorale, della propaganda. Questa è la scomparsa della libera concorrenza: una apparente libera scelta tra opzioni già prestabilite da qualcun altro.Tale impostazione, se non compresa, è però molte volte avvertita dal singolo individuo ed è alla base di un crescente disinteresse per la vita politica. Altro esempio: stavolta sono un operaio, lavoro in un cantiere edile. Ho appena finito il mio turno di lavoro e sto tornando a casa per cena. Ho la radio accesa e per caso ascolto una trasmissione radiofonica in cui si parla di una indagine statistica in cui il 95 per cento degli elettori di un partito si sono dimostrati incapaci di elencare i punti programmatici del programma che hanno votato. Penso per un attimo che anche io sarei incapace di elencarli: torno talmente stanco la sera a casa e al massimo mi concedo un po’ di tv, non ho alcuna voglia di leggere un giornale scritto in modo fazioso e incomprensibile o di appesantirmi la serata guardando una trasmissione di approfondimento politico in cui non si capisce nulla e in cui si parla di roba che non mi riguarda. Voterò per quello che mi fa più simpatia. Cambio stazione radiofonica e non ci penso più.
Risultato? Ogni aspetto della nostra esistenza è difficile da tenere al riparo da una società invadente che vuole venderci sempre più optional per la nostra esistenza. Anche l’offerta politica ai nostri occhi appare come un qualsiasi altro prodotto. Non ci si limita più a fare un’offerta, la si espone dappertutto. Perfino a casa si ricevono telefonate per l’acquisto di questo o di quel prodotto. Perfino a casa ci raggiungono le telefonate di un ufficio elettorale, in tempo di elezioni. Perfino a casa si tenta di raggiungerci per venderci qualcosa, qualunque cosa. La mercificazione è completa e totale. L’unico modo per ottenere riparo sembra essere l’adottare una forma di chiusura nei confronti del mondo esterno, chiusura che inevitabilmente porta a divenire pedine di un sistema sociale che sembra andare avanti in modo impersonale. Esiste un nuovo dominio, ma non si basa più sull’esercizio fisico della forza: il nuovo dominio è molto più subdolo e si basa su un martellamento mediatico che punta a far sì che ogni uomo, da solo, si costruisca la propria Alcatraz6. Ogni uomo interiorizza da sé la propria costrizione: quella di lavorare 9/10 ore al giorno per mille euro al mese, quella che un determinato prodotto (auto, vestito, farmaco, formaggio… qualunque cosa) sia migliore di un altro che costa la metà perché l’ha sentito in tv ecc… Aumenta dunque la dipendenza dell’uomo dai suoi strumenti e prodotti (e questa è stata una costante nella sua storia), ma aumenta in modo spropositato a causa dell’incredibile modo in cui tali strumenti e prodotti vengono offerti al pubblico; e aumenta il modo in cui tali strumenti e prodotti ne condizionano l’esistenza. Adorno, Horkheimer e Marcuse sottolineano come sia necessario ampliare lo spettro delle manifestazioni di vita umane, uscendo dalla trappola di un sistema che punta esclusivamente a ripetere sé stesso ma in una versione più aggiornata, potremmo dire in gergo informatico. Significa che ulteriori progressi tecnologici, ulteriori prodotti sempre più sofisticati non porteranno a un reale, percepito aumento della qualità della vita, non porteranno insomma a un benessere sostanziale se non si interviene per cambiare l’impostazione di base della società. Bisogna, cioè, che il fine della società torni (o cominci… dipende dai punti di vista) ad essere l’uomo. Questo sarebbe il vero progresso, un cambiamento qualitativo dei principi alla base della società. Ma non è concesso: la società di massa richiede una cultura di massa, una cultura in grado di entrare in ogni ambito della vita di un individuo. Adorno e Horkheimer parlano di nascita dell’industria culturale; è una metafora utilizzata per affermare che la meccanizzazione avanza come processo non solo all’interno della classica produzione industriale, ma anche nell’organizzazione del tempo libero dell’uomo:

essa determina in modo così integrale la fabbricazione dei prodotti di svago che egli non è più in grado di apprendere e sperimentare altro che le copie e le riproduzioni dello stesso processo lavorativo. Il preteso contenuto è solo un esile pretesto: ciò che si imprime realmente negli animi è una sequenza automatizzata di operazioni prescritte. Al processo lavorativo nella fabbrica e nell’ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell’ozio7.

Più semplicemente, anche nel tempo libero viene proposto un elogio della routine quotidiana. Il divertimento non deve costare fatica ed è comprensibile, perché dopo turni massacranti di lavoro, di energia ne rimane davvero poca. In questo modo, dalla sfera del tempo libero viene progressivamente bandita la creatività; sì, la creatività presuppone uno sforzo, costa fatica. Nessuno può avere voglia di far funzionare il cervello dopo un turno di lavoro di 9 ore. Ed ecco che l’industria culturale provvede anche a questo: nei cinema, nelle sale giochi, nelle discoteche ecc. si disconnette il cervello e si consuma il divertimento. Esattamente: si consuma. A chi non è capitato di dire, tra amici: “Stasera che si fa? Solito film al cinema?” o “Solito locale” o “Solita serata?” ecc. Sappiamo già prima, ogni sera, cosa aspettarci da una serata. È come se fosse una scelta tra alternative già date, ma mai davvero radicalmente nuove. Raramente un evento, una serata ballerina, un film tra i più pubblicizzati stupiscono più di tanto. A volte capita, certo. Ma il più delle volte, semplicemente, piacciono o non piacciono. Ma non stupiscono. Non sono nulla di nuovo. Così il divertimento stesso finisce per tradursi in noia. Non siamo noi gli attori del nostro divertimento; essere attori presuppone uno sforzo creativo, comporta fatica. Ma il divertimento, ormai, può portare piacere solo se non comporta fatica, dicono Horkheimer e Adorno. Immagini seducenti e belle parole incartano la promessa di piacere fatta dallo spettacolo commissionato dall’industria culturale. Il singolo individuo è anche qui principalmente consumatore; e la promessa di piacere, alla lunga, viene disattesa se si trasforma nell’elogio di una ruota che gira sempre su sé stessa. Insomma, vedere un film pieno di “stupefacenti” effetti speciali, ballare in un locale dall’architettura mozzafiato non impediranno che il giorno dopo ognuno torni al proprio lavoro più o meno mortificante, al proprio misero ruolo in una enorme e impersonale catena di montaggio. La tecnica, con la propaganda, rischia di trasformarsi in psicotecnica, dicono Horkheimer e Adorno. Si punta alla riproduzione di un sistema attraverso la riproduzione del tipo d’uomo funzionale a quel sistema. Ecco il ruolo di quella che una volta era chiamata propaganda; oggi forse la chiamano pubblicità. In un contesto in cui è importante solo il valore di mercato, ogni cosa assume un valore diverso: il pensiero è ridotto a sapere (perde la sua dinamicità: è qualcosa di già scritto, non qualcosa in evoluzione), il libro a bene di consumo. Perfino il linguaggio viene poco a poco sterilizzato. Come? La pubblicità, ad esempio, parla per slogan. La pubblicità il più delle volte non spiega perché, ma ti vende un’affermazione: «è così». Le parole iniziano a perdere significato, perché non sono più direttamente connesse con l’esperienza vitale che ne stava alla base. Molta gente utilizza modi di dire, parole e detti, di cui ignora completamente l’origine. Insomma, perfino il linguaggio acquista valore di mercato: deve vendere. È il principale mezzo utile a tale scopo e pertanto anch’esso subisce questa pressione; scrive Marcuse:

Codesto linguaggio, che impone senza tregua delle immagini, milita contro lo sviluppo e l’espressione dei concetti. Immediato e diretto com’è, esso è d’intralcio al pensiero concettuale, ed in tal modo impedisce di pensare. Il concetto, infatti, non identifica la cosa e la funzione8.

Il linguaggio viene quindi progressivamente funzionalizzato; ovvero, le parole tendono a indicare sempre più spesso solo la funzione di un determinato oggetto. Niente di più. Viene attaccato e fatto fuori il linguaggio della negazione: negare qualcosa significa infatti poter immaginare un’alternativa. Una cultura che diviene completamente affermativa è una cultura che promuove un linguaggio depurato dalla negazione; il linguaggio ammesso è solo quello che permette di riconoscere e riprodurre ciò che c’è già. Ragionandoci un poco, è un linguaggio che è tutto il contrario del linguaggio poetico. È tutto il contrario del linguaggio dell’arte. È un linguaggio che punta a fornire una gamma predefinita di significati e che perde ogni contatto con la criticità. Tutto deve servire a qualcosa e al singolo individuo sembra non sia più richiesto di interrogarsi sul perché delle cose, anzi. Certe volte pare si suggerisca proprio che egli non sia legittimato a farlo. Faccio un esempio pratico: in molte trasmissioni di approfondimento o che si occupano di informazione è presente oggi la figura dell’opinionista. Esprimere un’opinione è quindi diventato un lavoro? Inoltre, il messaggio che passa, indirettamente, è che non tutti siano legittimati a farlo. Anche l’opinione quindi viene proiettata nel mercato, anche l’opinione viene consumata, serve a qualcosa. Serve, nel senso riduttivo del termine. È mirata a far sì che l’individuo si riconosca nell’insieme delle alternative preconfezionate che la società ha già predisposto per lui, siano esse vestiti, libri, film, svaghi, automobili o uomini politici. Si punta cioè alla formazione di un uomo perfettamente integrato nel mondo che gli viene proposto, un uomo che ha smesso di essere il principale artefice del proprio destino. È questo il principale problema per gli studiosi della Scuola di Francoforte: lo svilimento dell’esistenza umana attraverso una sempre più capillare mercificazione dell’esistenza. L’uomo si riconosce nei prodotti che la società gli dispone per l’acquisto e sviluppa dei bisogni che vanno ben oltre quelli primari e che favoriscono condotte che mantengono un sistema basato sullo spreco. Le montagne di immondizia immortalate recentemente dai fotoreporter a Napoli rendono alla perfezione questo concetto.

Non è il progresso tecnologico in quanto tale che potrà liberare l’uomo. Marcuse non s’attende la salvezza dall’automazione. Non pone da un lato la propria utopia personale privata e dall’altro l’automatismo del progresso industriale tecnologico destinato a negare per forza di cose le basi del dominio da cui ha tratto origine, ignorando l’essenziale, ciò che deve porsi tra questi due momenti astratti, cioè la presa di coscienza della repressione da parte del represso9.

Non è quindi il solo progresso tecnologico che potrà liberare l’uomo dalle necessità dell’esistenza materiale, ma il recupero di una coscienza critica che possa permettere a chiunque di fare qualcosa per cambiare qualitativamente la società. Non basta cioè avere una macchina meravigliosa se non si posseggono anche le chiavi per farla funzionare. Non basta conoscere le tecniche per un corretto riciclaggio dei rifiuti se questa conoscenza non viene accompagnata dalla volontà politica di utilizzarle e dalla coscienza dell’importanza del loro utilizzo. L’uomo di oggi deve ri-acquistare coscienza: del proprio lavoro, della propria vita, del proprio dovere. Ed è infinitamente difficile, perché oggi chiunque è martellato da una continua, perenne campagna mediatica che inevitabilmente suggerisce cosa pensare e come agire. Dal punto di vista culturale, probabilmente non è mai esistita una società capace di esercitare un’influenza talmente vasta. È perciò fondamentale il recupero della soggettività, per evitare il proliferare di false coscienze. L’uomo deve recuperare altre dimensioni della propria esistenza e sfuggire alla trappola dell’unica dimensione proposta dalla società in cui vive. Per Marcuse, condizione necessaria al recupero di una razionalità libera è la liberazione dei sensi dell’uomo:

Emancipati, i sensi respingerebbero la razionalità strumentale del capitalismo mentre ne conserverebbero e svilupperebbero i risultati. Due sono le vie per raggiungere quest’obiettivo: la prima negativa, poiché L’Io, l’altro e il mondo degli oggetti non sarebbero più vissuti nel contesto dell’appropriazione aggressiva, della competizione e del possesso difensivo; l’altra positiva, attraverso la ‘appropriazione umana della natura’, cioè attraverso la trasformazione della natura in ambiente (mezzo) a misura dell’uomo in quanto ‘essere della sua specie’, libero di sviluppare le facoltà specificamente umane10.

Come procedere dunque al recupero della sensibilità dell’uomo, alla liberazione dei sensi dell’uomo, in modo da poter costruire una nuova razionalità? Marcuse afferma che il condizionamento dell’individuo da parte della società, del mondo esterno, procede alla manipolazione dei suoi bisogni attraverso un meccanismo di controllo degli istinti. Il condizionamento, dunque, opera a un livello molto profondo della psiche. Dato che uno dei processi mentali più direttamente collegati alla sfera istintuale è quello della fantasia e dell’immaginazione, continua Marcuse, è attraverso una loro salvaguardia che si può sperare di intraprendere la battaglia per una nuova ragione. Fantasia e immaginazione sono processi mentali propri dell’Arte in tutte le sue differenti forme. Una maggiore cura della dimensione estetica dell’esistenza dunque è fondamentale per arrivare a un’educazione che possa realmente cambiare i bisogni dell’uomo. La facoltà estetica dell’uomo veicola contenuti non violenti e separati da uno stretto rapporto con la realtà sociale. Per capire meglio: Blowing in the wind di Bob Dylan per Marcuse è rivoluzionaria perché è poetica, perché parla un linguaggio diverso. E il linguaggio dell’arte sarà sempre rivoluzionario perché sarà sempre diverso da quello della società, al di là della presenza di un contenuto politico o meno. Educazione estetica dunque significa educazione a un nuovo principio di realtà e nascita di una nuova idea di ragione.

Ho sottolineato all’inizio come gli studiosi dell’istituto ebbero modo di vivere direttamente sia la realtà sociale del nazionalsocialismo tedesco che la realtà della società americana. Dopo la fine della guerra, però, mentre Horkheimer e Adorno fecero ritorno in Germania, Marcuse e altri studiosi decisero di continuare la loro attività di ricerca negli Stati Uniti. Marcuse insomma condusse, per un lungo periodo, la propria attività di ricerca negli Stati Uniti all’interno di un contesto che si stava preparando al grande movimento studentesco americano degli anni ‘60 che sfociò poi nella contestazione del ‘68. Lo studioso tedesco emigrato in America venne considerato dai leader di molti movimenti di protesta un punto di riferimento importante a livello culturale, sebbene egli non accettasse senza riserve l’etichetta di “ideologo del ‘68” che molti gli affibbiarono. Resta il fatto che durante gli anni della contestazione studentesca molti studenti lessero L’uomo a una dimensione. È un caso che un uomo nato e cresciuto in Germania durante gli anni del nazismo cercasse di avvertire la società occidentale circa i rischi totalitari di certi aspetti della sua stessa organizzazione? Di certo, il fatto che uno degli slogan del movimento studentesco fosse «immaginazione al potere» la dice lunga sull’influenza del filosofo anglo-tedesco sui movimenti sessantottini. Horkheimer e Adorno costruirono i fondamenti della critica, Marcuse la sviluppò e cercò di andare oltre, suggerendo anche un’azione politica, con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso. Ma cosa successe veramente durante il ’68?
Storicamente, i decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale furono davvero molto particolari. Il mondo si trovò di fatto diviso in due grandi blocchi internazionali, uno Occidentale, facente capo agli Stati Uniti e alla Nato (1949) e il blocco Comunista, facente capo all’Unione Sovietica e comprendente i Paesi del Patto di Varsavia (1949). Tra questi due grandi blocchi internazionali si sviluppò una tensione progressivamente crescente che, sebbene non portò mai ad alcun conflitto diretto, fu alla base di alcuni episodi, bellici e non, che ebbero di certo ripercussioni a livello internazionale (ad esempio, il conflitto del Vietnam che insanguinò il paese asiatico dal 1960 al 1975 e che vide la sconfitta dell’esercito americano, oppure la crisi missilistica di Cuba, dovuta allo spiegamento sovietico di missili nucleari nel paese caraibico e che ebbe luogo nell’Ottobre del 1962); semplicemente, due grandi sistemi socio-economici si fronteggiavano a livello internazionale in tutti gli ambiti: lo scopo era quello di dimostrare una potenza maggiore rispetto al rivale. Il vecchio continente, l’Europa, si trovò sostanzialmente attraversato da due sfere d’influenza. I vecchi confini nazionali, nel territorio europeo, furono sottoscritti a una linea di demarcazione ulteriore; una linea che sanciva l’appartenenza al blocco statunitense o a quello sovietico:

la politica della guerra lasciò il posto alla politica della guerra fredda. Con il 1947-48, quelle che erano state linee di demarcazione interne alle singole società si trasformarono in uno steccato tra l’Europa occidentale e quella orientale, con l’antagonismo ideologico tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti quale elemento centrale e dominante. In sostanza, guerra fredda significava regime dei partiti comunisti o di loro alleati all’Est e regime non comunista all’Ovest. In Occidente vi furono contestatori particolarmente lungimiranti che tentarono, soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, di superare questo antagonismo, ma con scarso successo. Non era facile immaginare un altro modo per organizzare le controversie in seno alla società ed elaborare strategie politiche. Così, è la guerra fredda a delimitare nel modo più chiaro quest’epoca, che si aprì rapidamente e altrettanto rapidamente, tra lo sconcerto di tutti gli osservatori, si è conclusa. La riunificazione della Germania, il crollo dei partiti comunisti nell’Europa Orientale e lo smembramento dell’Unione Sovietica hanno posto fine ad un’èra che si era aperta alla conclusione della seconda guerra mondiale11.

Il mondo intero dunque dovette sottostare all’applicazione di confini sovranazionali che ne attestavano l’appartenenza a una o a un’altra sfera politica di influenza; la Germania venne letteralmente spaccata a metà, costituendo una metafora della divisione politica dell’Europa intera. Ogni paese era votato a fornire il proprio contributo per l’affermazione del modello politico della superpotenza cui era sottomesso. Ogni paese dunque costituì una pedina fondamentale per l’affermazione di un modello internazionale di dominio, fornendo il proprio contributo in termini finanziari, scientifici, economici. La continua corsa allo sviluppo economico diveniva dunque continua corsa al progresso nelle tecniche militari e allo sviluppo della ricerca scientifica. Un altro esempio di come questa sorta di duello globale influenzasse ogni aspetto dell’attività dei due paesi fu la corsa alla conquista dello spazio: sia Stati Uniti che URSS impiegarono una quantità di risorse elevatissima (umane ed economiche) per lo sviluppo dei rispettivi programmi spaziali. Il primo sbarco sulla Luna, ad opera degli uomini del programma americano Apollo 11 (Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins; i primi due sbarcarono fisicamente sul suolo lunare il 20 luglio 1969, mentre Collins rimase in orbita lunare), costituì certamente una grande conquista per tutta l’umanità; ma particolarmente importante per gli Stati Uniti fu che la NASA fosse riuscita nell’obiettivo prima dei rivali sovietici: fu una grande dimostrazione di potenza.

Insomma, due grandi blocchi internazionali si fronteggiavano in tutti i settori a livello scientifico, economico e militare. L’obiettivo: mantenere ed espandere la propria sfera di influenza. Ogni successo mostrava al mondo come il proprio sistema fosse più efficiente e potente di quello rivale; ogni guerra regionale era volta a impedire che il blocco rivale annettesse territori e uomini alla propria sfera d’influenza. Si fronteggiavano cioè non solo due grandi potenze economiche e militari; si fronteggiavano due differenti visioni della società. Questa corsa al successo e alla potenza influenzò decisamente ogni aspetto della vita politica e sociale di ogni Paese (a questo riguardo, ci sarebbe molto da dire in merito alla situazione politica e sociale italiana di questi anni); ma per riuscire in questa corsa al successo, in entrambi i blocchi fu necessario ottenere un ampio consenso popolare; come? Ancora una volta, tramite la propaganda. Come nei Paesi del Patto Atlantico radio e televisioni dipingevano un nemico comune nei Paesi dell’Est Sovietico, così accadeva nei Paesi del Patto di Varsavia nei confronti dei paesi dell’area atlantica. Capitalismo americano e Comunismo sovietico si fronteggiavano facendo capo a tutte le risorse disponibili e cercando di ottenere in tutti i modi il consenso maggiore possibile. Già, il consenso era necessario. Bisognava che ogni singolo cittadino fosse realmente convinto della necessità di sconfiggere un pericolosissimo nemico comune per giustificare milioni di investimenti in armamenti e in programmi spaziali e nucleari. La macchina mediatica giocò ancora una volta un ruolo fondamentale. A lungo andare, sappiamo che il Blocco Atlantico ebbe la meglio e che l’URSS finì per dividersi in diversi stati, ufficialmente nel 1991. Per diversi decenni però si visse una situazione di continua tensione internazionale che non lasciava presagire nulla di buono. Per diversi anni, due grandi potenze utilizzarono tutte le proprie risorse economiche e mediatiche con lo scopo principale di prevalere politicamente sul diretto rivale. La macchina mediatica di ognuna ebbe il compito di affermare una visione del mondo e di demonizzarne un’altra. Proprio nel bel mezzo di questi anni di tensione, in cui ancora nessuno dei due grandi rivali sembrava prevalere nettamente sull’altro, ebbe luogo un movimento di protesta studentesca senza precedenti che accolse entro le sue fila anche operai e emarginati di differenti gruppi etnici e che in breve tempo si propagò a livello internazionale criticando fortemente la politica interna ed estera delle superpotenze.
Il movimento nacque negli Stati Uniti durante la metà degli Anni ‘60 e si sviluppò in modo crescente, propagandosi in modo capillare anche in Europa. Sebbene non si possa parlare di eguale diffusione nei Paesi d’area sovietica, anche qui si svilupparono movimenti di protesta; in particolare, essi prendevano di mira il principio dell’autorità e la sua forte incidenza dell’organizzazione sociale ed economica del mondo comunista. Comune a ogni movimento sviluppatosi in qualsiasi stato fu il rifiuto della guerra come principio per il mantenimento dell’ordine internazionale, il rifiuto di ogni razzismo e ogni forma di emarginazione e oppressione sociale, il principio di uguaglianza e del rispetto della sfera individuale della vita di ogni individuo. Proprio così: entrambi i blocchi avevano sviluppato in modi diversi un sistema di controllo capillare della vita dei singoli. La protesta ebbe dunque questo denominatore comune, nonostante la indiscussa matrice di sinistra che la caratterizzava. Andiamo adesso a dare un’occhiata ad alcuni tra gli avvenimenti più importanti di quegli anni tanto turbolenti: la primavera di Praga (Gennaio-Agosto 1968), il propagarsi dei movimenti di protesta studenteschi in Italia e in Germania (senza considerare il “maggio francese”, considerato da molti il manifesto del movimento studentesco), l’assassinio il 4 Aprile del 1968 del leader nonviolento Martin Luther King, le rivolte della popolazione nera contro un razzismo sostanziale ancora presente e i movimenti estremisti di liberazione, il Black Panther Party, la forte e presente opposizione alla guerra in Vietnam, la rivolta a Cuba agli ordini di Fidel Castro e guidata da Ernesto “Che” Guevara ecc. Non si contano le manifestazioni vitali di un travagliato sostrato sociale; la società era in fermento, il mondo era in fermento ed era palpabile la sensazione che qualcosa di importante stesse cambiando davvero. I giovani di quegli anni sognavano di rinnovare la società e di costruirne ex novo una migliore, rottamando molti principi e sostituendoli con nuovi migliori; si credeva a un cambiamento qualitativo della vita, non soltanto quantitativo. Si credeva che la nuova società sarebbe stata migliore perché l’uomo figlio della nuova società sarebbe stato diverso, guidato da una diversa sensibilità. Ecco che ritorniamo a Marcuse; egli fu veramente l’ideologo di quegli anni, sebbene fosse particolarmente attento a non essere identificato ufficialmente con nessun movimento studentesco. Eppure il suo richiamo al rinnovo dell’esistenza tramite il rinnovo della sensibilità umana, tramite la diffusione di una cultura non violenta, fu davvero carpito e fatto proprio dai movimenti di protesta. Parallelamente alla critica, infatti, essi cercarono di promuovere e sviluppare nuovi costumi alla base di una, si sperava, nascente nuova cultura. Il fermento in questi anni, a livello artistico, fu davvero tanto. Furono gli anni di un giovane Bob Dylan, gli anni della diffusione della cultura hippy e del concerto di Woodstock (15-18 Agosto 1969), gli anni della pop art di Andy Warhol, gli anni in cui nacquero i Beatles, i Rolling Stones e gli Who, gli anni in cui un giovanissimo Dustin Hoffman interpretava magistralmente un magnifico ruolo ne Il Laureato, gli anni descritti in Easy Rider, in cui Jack Nicholson fece una delle sue prime e più riuscite interpretazioni. Giovani e soggetti emarginati provenienti da qualsiasi ramo della società sembrarono in grado davvero di far barcollare il sistema. Certamente, la contestazione si diffuse nel modo pittoresco in cui è passata alla storia maggiormente nel mondo occidentale ma, come abbiamo visto, fu presente e portò avanti alcune istanze in modo convinto anche in quello orientale: la Primavera di Praga ne è l’esempio più lampante. In Cecoslovacchia infatti, tra il Gennaio e l’Agosto 1968, si cercò di portare avanti alcune liberalizzazioni che vennero bloccate con un intervento di contingenti di truppe sovietiche e dei Paesi alleati del Patto di Varsavia. Ma dovunque si avvertiva un fermento sociale e culturale. I giovani e gli emarginati degli anni ‘60 volevano cambiare il mondo. Il concetti di uguaglianza e giustizia sociale stavano particolarmente a cuore ai movimenti di protesta “occidentali”, il recupero della individualità contro uno smodato uso dell’autorità ai movimenti di protesta “orientali”. Mentre la NASA portava avanti il programma Apollo per la conquista del suolo lunare, la gioventù e le minoranze emarginate di gran parte del globo portavano avanti l’utopia di un mondo meno grigio in cui l’immaginazione, la fantasia, la giustizia e il rispetto della natura sarebbero stati al potere. Antiautoritarismo e critica della modernità: il futuro avrebbe potuto essere migliore non solamente in funzione della tecnologia; il futuro avrebbe potuto essere qualitativamente migliore solo se l’uomo avesse avuto il coraggio di ridefinire i principi alla base delle sue organizzazioni societarie. Da solo, il progresso tecnico non sarebbe bastato; il progresso tecnico è buono solo se sviluppato in funzione di un uomo nuovo, non violento, che non pratica la guerra per mantenere la pace, che non pratica un consumismo sfrenato ma è attento a una migliore distribuzione delle risorse, che ha sviluppato dunque una nuova ragione: una razionalità sensibile. Questo era quanto effettivamente Marcuse aveva affermato nella sua opera. Molti giovani degli anni ‘60 interpretarono questo concetto come la necessità della totale liberalizzazione dei costumi sessuali: molti giovani praticarono il culto dell’amore libero, in modo volutamente provocatorio. Aumentò molto anche il consumo di droghe, leggere e pesanti; insomma, sembrava che il richiamo allo sviluppo di una nuova sensibilità comportasse una certa, potremmo dire, rilassatezza dei costumi. Quanti giovani assunsero stupefacenti incuranti delle telecamere e dei reporter durante la memorabile perfomance di Jimi Hendrix al concerto di Woodstock? C’è da scommettere che non furono affatto pochi. Quegli anni portarono davvero a una rivoluzione dei costumi: il modo di vestire, le modalità di espressione, i comportamenti che vennero sdoganati furono davvero tanti, nel bene e nel male. Si passò di colpo da un’epoca in cui davvero era difficile avere un contatto con l’altro sesso, per la sconvenienza del gesto, all’amore libero. Nelle scuole si iniziò a vestire diversamente e a impostare un diverso rapporto con gli insegnanti, che cominciarono a “svestirsi”, al contrario, della loro autorità. Si passò dall’epoca delle gonne alle caviglie alle minigonne, nacquero la musica rock e il teatro sperimentale. La vecchia società cominciò davvero a concedere qualcosa al cambiamento; i costumi cambiarono. Non fu solo il potere statale ad essere oggetto della contestazione, ma anche ogni attore e usanza della vita quotidiana che fossero visti come un rappresentante dell’autorità: il padre a casa, il professore in aula, il caporeparto in fabbrica o in negozio, il modo di vestirsi forzatamente casto. Il mondo esterno spaventa, appare del tutto inadeguato e inquietante al tempo stesso; la generazione nata tra gli anni ’40 e ’50 si sviluppa infatti in un contesto nuovo, mai sperimentato: una potenziale grande possibilità di diffondere le informazioni, il rischio d’annientamento dovuto alla corsa al nucleare, un contesto solo apparentemente pacificato ma ricco di contraddizioni, come quella del dover praticare la guerra per mantenere una pace fittizia. Questa generazione avverte le potenzialità liberatorie insite nel progresso tecnologico portato avanti dall’uomo e si adopera politicamente per svilupparle a pieno.

Chiediamoci adesso: oltre ad una evidente, innegabile rivoluzione dei costumi, riuscì il movimento sessantottino a incidere profondamente nel tessuto della società, rifondandone l’impostazione? Riuscì, insomma, a ottenere che la società fosse davvero più attenta ai reali bisogni e alla formazione umana dell’individuo? Per rispondere si può osservare la realtà di oggi. L’uomo di oggi ha davvero più tempo per dedicarsi allo sviluppo delle sue capacità propriamente umane? Ha più tempo da dedicare alla propria vita? È più rispettoso della natura? È in grado di formarsi liberamente una propria identità culturale o è bombardato dai dogmi di un’industria culturale sempre più invadente? Per iniziare, osserviamo quello che è cambiato davvero. A una struttura sociale semi-rigida e ancora molto formale come quella del vecchio mondo borghese, si è sostituita una struttura in cui, almeno in linea di principio, chiunque può interagire con chiunque a qualsiasi livello della società. I rapporti umani sociali e affettivi sono stati sdoganati da tutta una serie di restrizioni che precedentemente li condizionavano. Condurre una vita sociale attiva e piena di stimoli è oggi molto più semplice di una volta. In linea di principio, oggi ci si può vestire un po’ come si vuole senza essere tacciati di sconvenienza, al di là di certi pregiudizi duri a morire. Quindi, in generale, possiamo dire che nella sfera dei costumi sono state concesse (o conquistate) diverse libertà. Di certo, gran parte di queste conquiste, se non la totalità, sono state il frutto degli anni della contestazione, degli anni in cui era normale la critica della società. Analizziamo ora, ancora una volta, il modo in cui vengono gestite l’informazione e la cultura. Uno sguardo superficiale potrebbe portare ad affermare che la cultura sia stata liberalizzata; chiunque oggi può acquistare un libro nella libreria sotto casa o in un centro commerciale, non è più difficile reperire il materiale culturale: questo è effettivamente vero. Ma la cultura non si riduce al libro in vendita in libreria, non si riduce al romanzo di Garcia Marquez o all’opera di Baricco acquistabile sotto casa. Cultura è anche il modo in cui si interagisce con un romanzo, il modo in cui un’opera ci viene proposta, il modo in cui un’informazione viene veicolata. La cultura è uno spazio aperto; quando un’opera ci viene proposta esclusivamente per essere consumata, quell’opera perde in parte il proprio potenziale culturale. Vendendo libri in un centro commerciale (in un ambiente asettico destinato solo all’acquisto, senza che vi siano né il tempo né lo spazio necessario per parlarne), alla stessa stregua di un paio di jeans, potrebbe indirettamente passare il concetto che anche il libro è principalmente un oggetto di consumo. E difatti oggi è così. La piccola vecchia libreria, in cui il libraio sapeva consigliare e scambiare opinioni con la persona che aveva davanti, prima che con il cliente, ha oggi serie difficoltà a reggere la concorrenza dei punti in franchising della grande catena di distribuzione. Voglio dire semplicemente che la mercificazione colpisce anche i prodotti della cultura; che vengono chiamati prodotti non a caso. La piccola libreria rischia di chiudere perché ha difficoltà a reggere la concorrenza. Il romanzo d’autore viene notato dall’editore solo in funzione del suo potenziale di mercato. La notizia viene presentata in prima o in ultima pagina sempre secondo questa logica, anche l’informazione deve produrre guadagno; ed è veramente incredibile come in un’epoca in cui gli strumenti tecnologici abbiano aperto possibilità enormi per la trasmissione delle informazioni, la maggior parte delle persone continui a ricorrere al canale ufficiale del telegiornale per tenersi informata. Un mezzo straordinario come internet, che attraverso varie sue applicazioni raggiunge un potenziale incredibile per la diffusione delle informazioni, è ancora utilizzato da una bassa percentuale di persone in questo senso. Gli stessi social network, eccezionali strumenti di condivisione, potrebbero costituire un’alternativa ai canali ufficiali. Ma anni di martellamento mediatico indeboliscono l’iniziativa personale. Ancora oggi il mercato orienta la cultura. La pubblicità serve a inserire un prodotto culturale nel mercato. Mentre Goebbels utilizzava le radio e i cinema per ottenere l’adesione all’idea nazionalista di società, oggi la propaganda è la pubblicità ed è funzionale esclusivamente al mercato. Mentre Goebbels cercava tramite la propaganda di formare l’uomo nazista, oggi si cerca di formare il consumatore. In più, rispetto a una volta, c’è una variante molto importante da considerare: il potere è diventato impersonale. Mentre possiamo tranquillamente affermare che la propaganda politica di Goebbels, o del governo di Stalin nell’Unione Sovietica, era architettata da un determinato gruppo di uomini al servizio di un preciso disegno politico, oggi si fa fatica ad individuare i responsabili della “propaganda odierna”. La rete di interessi, di lobby, di multinazionali è talmente estesa e intrecciata che sembra essere essa a esercitare un’influenza sulle istituzioni politiche e non viceversa; è cioè il mercato a determinare le azioni degli uomini politici, e non il contrario. Anche i capi oggi sembrano dunque pedine e non manovratori della propaganda. La società dei consumi ha inglobato al proprio interno ogni istanza, ogni potere, ogni riferimento. È stata ottenuta una riforma dei costumi e si è costruito in parallelo un mercato (fin dai rivoluzionari anni ’60): dei jeans, dei cinema, dei locali notturni, delle t-shirt, delle minigonne. È stata consentita la musica rock e se ne è costruito un mercato: dei dischi in vinile prima, delle musicassette e dei compact disc poi, e dei concerti. È esplosa la pop art ed è stato costruito il mercato dei gadget e delle mostre. Perfino la rivoluzione cubana è stata commercializzata e ancora oggi è facile trovare dovunque magliette e gadget di ogni tipo con la stampa del volto di Che Guevara che, sono sicuro, si starà “rivoltando nella tomba”. Il cambiamento auspicato dalle contestazioni degli anni ’60 non si è mai avverato, né mai avrebbe potuto avverarsi, perché la macchina mediatica della società dei consumi fin da allora assorbì alla propria logica le manifestazioni culturali, artistiche di quegli anni, commercializzandole. In cambio della diffusione, in cambio della vendita di gadget e della pubblicità in radio, le istanze critiche di quegli anni hanno ceduto la propria linfa vitale. È stata ottenuta una riforma dei costumi, certamente; ma questo, forse, anche perché lo stesso fenomeno del ’68 è stato ridotto a una moda, ad un prodotto sociale da vendere come qualsiasi altro. Ecco perché ancora oggi ci si ritrova a parlare di cose di cui si discuteva molto anche negli anni della contestazione: della necessità di fare la guerra per mantenere la pace, degli sprechi di risorse e di energia da parte degli Stati più industrializzati, della necessità di adottare una politica di maggior rispetto per l’ambiente di quella adottata tutt’oggi dalla società industriale. Niente è stato risolto di tutto questo, perché niente è stato cambiato in modo sostanziale alla base della società. Anzi. Una serie di nuovi paesi in via di sviluppo sembra avere optato per il modello di sviluppo cieco già adottato dalle grandi potenze del passato. L’immaginazione forse non è mai stata effettivamente al potere.

Siamo giunti ormai quasi alla fine di questo breve itinerario. Abbiamo visto come l’impatto dei media, la costruzione di un’industria culturale abbiano giocato un ruolo fondamentale nelle società moderne. Abbiamo cercato di individuare i rischi dell’utilizzo indiscriminato di propaganda e pubblicità attraverso la lente “critica” fornitaci dagli studi degli autori della Scuola di Francoforte; abbiamo gettato una rapida occhiata sui movimenti di protesta degli anni ’60, cercando di definirne a grandi linee l’impatto sulla società. Abbiamo cercato di interpretare alcuni aspetti della nostra società e alcuni rischi ad essi connessi. Il quadro che ne emerge non è certo rassicurante. Mi sembra però necessario fare un appunto: credo che nell’affermazione di Marcuse (che, per le sue teorie sulla dimensione estetica dell’esistenza, deve molto ad Adorno) per cui è nelle facoltà dell’uomo più vicine alla sfera sensibile che bisogna ricercare le basi per una nuova, migliore razionalità, vi sia una grande intuizione. La fantasia e l’immaginazione sono le facoltà umane libere per eccellenza. L’arte non può essere mai del tutto ridotta a manifesto di una società, non può mai del tutto essere ricondotta entro i ranghi di nessuna società. L’arte prefigura per sua natura sempre qualcosa che va oltre, che trascende il dato momento storico e sociale. Anche se l’industria del divertimento e di massa tenderà sempre ad annullare la forma artistica, non riuscirà mai del tutto in questo obiettivo. Perché il principio estetico conserva la capacità di rendere qualsiasi contenuto più di un semplice dato di fatto. In qualsiasi opera artistica, ogni contenuto viene rimodellato; il contenuto, in parole povere, acquista sempre un significato più largo, un significato ulteriore:

persino la rappresentazione della morte e della distruzione evocano il bisogno della speranza, un bisogno radicato nella nuova coscienza incorporata nell’opera d’arte12.

Il linguaggio artistico è un linguaggio che riesce a veicolare sempre il seme della novità, attraverso la ricerca della bellezza. Inoltre è un linguaggio che permette di veicolare contenuti anche scabrosi e di realizzare opere belle tramite essi. Un esempio: molti pittori hanno rappresentato, nel corso dei secoli, la scena della crocifissione di Cristo. Il contenuto, la crocifissione, è certamente bruto, violento. Ma nessuno di noi avrebbe alcun problema a definire bello un quadro di Salvador Dalì sulla crocifissione, nonostante il contenuto violento; così come nessuno di noi avrebbe alcuna difficoltà a definire bello un film di guerra, nonostante in esso si tratti un argomento in sé violento. Questo è il potere dell’arte per Marcuse: la capacità di veicolare una quantità di significati e di rimandi emozionali indefinibile. La capacità di essere non violenta anche trattando un contenuto violento. La capacità di parlare sempre e comunque un linguaggio diverso. Non a caso sono partito dal riferimento a un film di Tarantino. L’arte permette sempre il pensiero critico, perché essa stessa è irriconducibile a qualsiasi sistema predefinito. Da un semplice fotogramma cinematografico è stato possibile ricavare uno spunto per un (seppur breve) lavoro storico, filosofico e di critica sociale. L’arte ha una capacità indefinibile di veicolare significati; si può dunque credere che fino a quando l’espressione artistica sarà una prerogativa del vivere umano, sarà sempre possibile immaginare un’alternativa ai dati di fatto. Quindi, nonostante ogni cartellone pubblicitario, ogni spot, ogni programma radiofonico che ci ha suggerito e ci suggerirà chi siamo, avremo sempre la possibilità di immaginare chi siamo in modo autonomo. Ogni uomo preferirà sempre cercare sé stesso nelle parole di una canzone, piuttosto che nella rèclame di un prodotto. La formazione di una personalità cosciente è il presupposto per la nascita di una società migliore. Forse, dunque, anche in una società come la nostra, confusa e caratterizzata da un’industria mediatica invadente e in cui la mercificazione ha del tutto avvolto anche la sfera lavorativa, sarà possibile attivare la coscienza, rendersi conto di come stanno andando le cose anche solo guardando un film, se si riesce a compiere un minimo sforzo per sfuggire alla noia.
In Tutta la vita davanti (2008, regia di Paolo Virzì), Marta è una ragazza intraprendente e capace, che appena terminati gli studi universitari si ritrova a lavorare in un call center per sbarcare il lunario. Marta si ritrova catapultata in una realtà che procede per parole d’ordine: vendere, precisione, efficienza. Il film è il ritratto della generazione del precariato, una generazione profondamente disillusa, completamente diversa da quella che riempiva le strade durante gli anni ’60. Non è un caso che durante il film venga riproposto un frammento di un altro film, C’eravamo tanto amati (1974, diretto da Ettore Scola, con Stefania Sandrelli, Vittorio Gassmann e Nino Manfredi):

«Volevamo cambiare il mondo, ma il mondo ha cambiato noi» diceva l’ex professore Nicola Palumbo. La generazione di oggi forse un ideale neanche lo ha mai avuto, il sistema e il pensiero attuale hanno fatto sì che in pochi pensino che la solidarietà e l’unione siano in grado di fare la forza. Non solo le colleghe di Marta, la protagonista, non ascoltano e non si rivolgono al sindacalista interpretato da Mastandrea, ma quest’ultimo stesso rappresenta un personaggio contraddittorio e non così efficace, attento forse anche lui più alla notizia che al radicamento del problema13.

Virzì lascia intravedere la scena del film diretto da Ettore Scola per rendere un contrasto stridente: quello tra la generazione dell’immediato dopoguerra, piena di speranza, di ideali e di voglia di cambiare il mondo, e quella della gioventù di oggi, del Duemila, che forse ideali veri non ne ha mai avuti e che è strangolata dal precariato e dall’instabilità. L’occhio di Marta diviene la vera telecamera,

l’espediente per scandagliare un universo di tipi umani sempre più reali. Non c’è condanna in Virzì neanche per chi non sta all’ultimo gradino della scala gerarchica: i capi sono personaggi altrettanto tragici e miseri nella loro vita da reality. L’ossessione per essere dei numeri uno, la prostituzione del corpo (come accade al personaggio di Sonia) e quella del cervello (Marta, che non a caso è la migliore del suo turno), la meschinità con cui aziende che cercano di vendere per telefono cercano di farsi ricevere a casa puntando sulla bontà di cuore di persone per lo più anziane preoccupate del mondo che stanno lasciando: «se riceverà un nostro incaricato aiuterà noi giovani che lavoriamo qui al call center e che veniamo pagati ad appuntamento»14.

Vendere, vendere, vendere. La società dei consumi ha portato avanti la propria opera di mercificazione arrivando a intaccare l’esistenza del singolo. Capi e sottoposti, istruiti e non, puttane e dottoresse stanno tutti sullo stesso piano, artefici e vittime inconsapevoli della stessa violenza. Sonia, coinquilina di Marta, vende il proprio corpo, Marta vende il proprio credo intellettuale per arrivare a fine mese. Si vendono entrambe. È la vita stessa ad essere in vendita. Eppure, in quest’opera che trasuda malinconia, è sempre presente la speranza. Marta non si dà per vinta, riesce a dare importanza ad altro nonostante tutto, riesce, nei pochi scampoli non frenetici della sua giornata, a vivere davvero. Il suo lavoro, la sua vita sociale è sottoposta alla violenza di una società che sembra non conoscere altro valore se non quello di mercato. Il pericolo non è stato ancora sventato, come ci ricorda la svastica incisa dal tenente Raine sulla fronte del colonnello Hans Landa in Inglourious Basterds di Quentin Tarantino. Ma è sempre possibile rendersene conto. Il primo passo da fare per poter cambiare le cose è riconoscere la realtà, per immaginarne una diversa.

 

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