Quo Vadis?: la “debolezza” della bontà cristiana

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Condanna un giorno ogni sei a un letargo infame
Quasi a molle ritratto del suo dio sfinito.
Rutilio Namaziano, De reditu suo

 

Così Rutilio Namaziano, autore e politico romano nato attorno al 400 d.C., descriveva con aspra condanna la religione monoteista, sia quella ebraica che quella cristiana. Accusa i cristiani di pigrizia, di rinunciare alla vita per isolarsi (si riferisce in particolar modo ai monaci) e di prendere un giorno di vacanza (sabato per gli Ebrei) a causa della loro debolezza. La debolezza è una caratteristica che i romani attribuiscono a Ebrei e Cristiani, per diverse ragioni. Tuttavia, Rutilio scrive il De reditu suo quando ormai la cultura cristiana è molto diffusa a Roma. A poco valgono le sue critiche, giustificate o meno, in un secolo in cui il cristianesimo è diventato ormai preponderante.

Se Rutilio ci offre uno specchio intimo di ciò che alcuni romani della sua epoca pensavano sul monoteismo, bisogna chiedersi quanto profondamente sbagliata e inconcepibile risultasse la dottrina cristiana per i romani nei primi momenti in cui cominciò a insediarsi nell’Impero. Ciò di cui la maggior parte degli storici e dei libri parla, ovvero la questione degli schiavi, dell’uguaglianza, della generosità, è senz’altro giusto, ma un po’ semplicistico. Tra gli autori che hanno maggiormente messo in risalto quanto la dicotomia tra latini e cristiani fosse così difficile da risolvere, senz’altro è da annoverare Henryk Sienkiewicz. Scrittore e giornalista polacco, vinse il premio nobel per il suo capolavoro Quo Vadis? Il romanzo è chiaramente filo-cattolico, eppure offre spunti di riflessione unici. La vicenda è apparentemente incentrata su una storia d’amore all’epoca dell’Impero di Nerone, tra Licia e Marco Vinicio, che già il magnifico colossal del 1951 con Robert Taylor ha portato nei cuori della gente. Il libro non risparmia al lettore momenti di assoluta dolcezza e romanticismo tra i due personaggi, ma è tutto fuorché una semplice storia di amore ostacolato dalle differenze.

D’un tratto Vinicio sentì che non gli bastava averla in casa, non gli bastava stringerla a viva forza nelle braccia, sentiva che il suo amore aveva bisogno di qualche cosa di più, aveva bisogno del consenso, dell’amore, dell’anima di lei. Felice quel tetto, se lei ci fosse entrata volontariamente, benedetto quel momento, benedetto quel giorno, benedetta la sua vita! Allora la felicità sarebbe stat inesauribile come l’oceano, come il sole. Ma impadronirsene con la violenza sarebbe stato un distruggere per sempre quella felicità, e nello stesso tempo un distruggere e contaminare ciò che era più prezioso e unicamente amabile nella vita. Al solo pensiero di tutto questo si sentì di nuovo preso da terrore.

Non si tratta di Romeo e Giulietta, con due famiglie in contrasto, ma di due universi culturali posti in continua contraddizione in un’epoca delicata e particolare. I due innamorati sono, infatti, un ostaggio di fede cristiana e un console romano. Marco Vinicio incarna il prototipo del vero romano a tutti gli effetti, aiutato da suo zio, ossia niente poco di meno che Petronio. Nella gestione di quest’ultima figura, che è di fatto il vero protagonista del romanzo (il quale inizia proprio con il suo risveglio), Sienkiewicz ha compiuto una serie di inesattezze storiche che è inutile sottolineare, in quanto ciò, contrariamente da quanto affermato da alcuni, non intacca la profondità e la specificità con cui vengono descritti i principi romani nel romanzo.

Era circa mezzogiorno quando Petronio si destò. Come al solito si sentiva molto stanco. La sera prima aveva partecipato a un festino, dato da Nerone, che si era protratto fino a tarda notte. Da qualche tempo la sua salute era precaria, ed egli stesso ammetteva che la mattina, al momento del risveglio, si sentiva intorpidito e stentava alquanto a riordinare le idee. Ma il bagno mattutino e i sapienti massaggi che le mani esperte di schiavi addetti a tale ufficio gli praticavano in tutto il corpo, lentamente riattivavano il suo sangue pigro e lo rinvigorivano, ritemprando le sue forze. Dall’ elaeothesium, cioè dall’ultimo reparto dei bagni. Petronio usciva come fosse rinato: appariva ringiovanito, pieno di vita, gli occhi scintillanti di letizia e di arguzia. Ed era così elegante, così irreprensibile nell’aspetto, che nemmeno Ottone avrebbe potuto rivaleggiare con lui: egli era un vero arbiter elegantiarum, come diceva Nerone.

Petronio per primo rappresenta quell’immagine di consigliere dell’Imperatore, elegantiae arbitrer, saggio che con il suo ingegno cerca di manipolare a suo piacimento il folle Nerone. Come sappiamo, la figura di quest’ultimo è stata di recente riabilitata dalla storiografia, ma nel romanzo, “barba di bronzo” (come lo chiama Petronio nel libro) è un uomo pericoloso da cui Petronio stesso si protegge grazie al suo intelletto, rigirandolo come vuole. Tuttavia la follia di Nerone si spinge troppo oltre, fino a fargli appiccare il famoso incendio di Roma del 64 d.C. Come sappiamo, storicamente la colpevolezza di Nerone non è stata confermata. Gli storiografi romani che gli dànno contro e lo accusano di essere il responsabile dell’incendio sono membri della classe senatoria presso la quale Nerone era malvisto, pertanto la storiografia contemporanea non è sicura della colpevolezza dell’Imperatore. Tanto più che anche la storiografia di età imperiale sovente si contraddice. Svetonio e Cassio Dione affermano che Nerone abbia incendiato Roma a causa della sua pazza e inquietante ambizione di cantare di una città in fiamme come accadde per Troia, ma anche per ricostruire la sua abitazione (fatto che trova storicamente prova dal fatto che, dopo l’incendio, venne costruita la domus aurea). Secondo Tacito,  invece, l’incendio di Roma fu causato dai cristiani, che definisce una setta pericolosa. È confermato tanto il pregiudizio di Tacito nei confronti dei cristiani, quanto il pregiudizio di Svetonio e Cassio Dione nei confronti di Nerone. Allora, qual è la verità? Ai fini del romanzo, per quanto non storicamente corretta, la colpevolezza di Nerone con i cristiani accusati ingiustamente risulta comunque un espediente affascinante. Quasi sicuramente è la giusta conclusione per la dicotomia così profondamente accentuata nell’opera: la cultura romana contro il mondo cristiano.

Le differenze che emergono da un punto di vista culturale ed motivo tra il mondo romano, quindi il cuore di Marco Vinicio e il pesce (simbolo dei cristiani) cristiano, sono a dir poco numerose. Quando Vinicio cerca Licia tra i cristiani poiché vuole farla sua, è costretto ad immergersi in un mondo particolare, strano, ambiguo e distante dal suo modo di pensare. Licia si riunisce con i suoi compagni nelle catacombe, prega e ascolta le testimonianze di Pietro su Gesù Cristo. Finisce per udirle anche lo stesso console e ne rimane sconvolto, ma anche toccato. Non tanto perché Licia creda in un Dio diverso dal suo; non fa parte, infatti, della cultura romana l’idea di imporre un credo religioso. Come sappiamo, i romani conquistarono la Grecia e ne rimasero conquistati, “prendendo” anche il pantheon, adeguandolo alle loro convinzioni. Questa era prassi con ogni popolo conquistato, i romani includevano i popoli che sottomettevano, con una clementia che a partire da Giulio Cesare è stata da sempre lodata. Per di più, nella cultura romana l’ambito religioso non era estremamente importante. Lucrezio per primo condanna un’idea di morale basata sulla religione, criticando chi si inginocchia per un dio in un altare, ma poi agisce in modo scorretto. Ancora di più, è impensabile per un romano l’idea di privarsi di tempo prezioso, da dedicare al negotium e all’impegno civile, per ragioni religiose. Anche per questo gli Ebrei venivano disprezzati dai romani, in quanto si prendevano un giorno di riposo a settimana ed in seguito, come abbiamo visto con Rutilio, i monaci cristiani saranno considerati animali in quanto rinunciano alla loro vita di cittadini per un Dio.

Non si tratta, quindi, semplicemente di una rivalità religiosa, c’è molto di più. Vinicio viene a contatto con un concetto mai sentito nella sua vita: il concetto di perdono. Il fatto di dover perdonare qualcuno perfino se ti fa del male, sconvolge il soldato, che si stupisce quando il gigante Ursus, un amico di Licia, uccide un uomo per difendersi e si sente in colpa perché “uccidere è peccato”. Quell’uomo lo ha attaccato, lo ha ucciso legittimamente, ma da buon cristiano non avrebbe dovuto fargli del male, bensì perdonare. Vinicio non comprende questo atteggiamento, ritenendosi in una posizione di superiorità.

Petronio: «Noi sappiamo vivere e morire; ciò che essi sappiano fare di più, non lo so».
Queste parole non mancarono di commuovere l’animo di Vinicio. Nel tornare a casa andava riflettendo, se forse la bontà e l’amore del prossimo dei cristiani, non fossero una prova della loro insufficienza spirituale e intellettiva. Gli sembrava che, se fosse stata gente di spirito e di tempra forte, non avrebbe potuto perdonare così facilmente; e in questo, credeva di aver scoperto il motivo dell’avversione che la sua natura di romano sentiva per la loro dottrina. “Noi sappiamo vivere e morire”, aveva detto Petronio. “E costoro? Costoro non sanno che perdonare, e non conoscono né il vero amore né il vero odio”.

Allo stesso tempo, egli è sconvolto da un’idea di uguaglianza tra gli uomini, convinto come è che esistono uomini destinati per loro natura a divenire schiavi. Non è giusto, quindi, che Vinicio in casa sua abbia schiavi e pensare di averne è un modo sbagliato di concepire un mondo, mondo che per il romano è sempre stato più che corretto e naturale. Vinicio in un primo momento è fermamente convinto che i cristiani siano deboli, molli, incapaci. Si nascondono dietro idea di peccato e di regno dei Cieli per una loro incapacità di vivere davvero la vita, per una loro inettitudine non sanno odiare o amare davvero qualcuno di specifico, perciò predicano un amore universale, come se scegliessero la via più facile. Predicano le convinzioni di qualcun altro, di un pescatore, di un Dio, perché non hanno le proprie. Eppure, proprio mentre con rabbia e convinzione afferma con assoluta certezza quanto il mondo romano sia più forte, Vinicio inizia a cambiare. In un processo di conversione forse un po’ troppo repentino, unico difetto del romanzo, che però rivela le profonde contraddizioni tra queste comunità straordinarie quanto differenti.

Pur essendo scritto da un cristiano convinto e letto da figli della cultura cristiana, questo romanzo suscita nel lettore un sentimento di assoluta comprensione per le perplessità dei romani. Ci si immedesima in un processo difficilissimo di inclusione dei cristiani in quella civiltà, che di questi tempi anche noi viviamo con altre culture e religioni. La persecuzione dei cristiani accusati dell’incendio, per quanto ingiusta, ci fa comprendere il livello di crisi culturale e minaccia emotiva che il cristianesimo ha posto all’interno della grande macchina dell’Impero romano.

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