Contingenza della necessità ai tempi del coronavirus

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Ha qualcosa da insegnarci la pandemia del coronavirus? Ammesso che la storia abbia mai insegnato qualcosa alla nostra specie. Scriveva a proposito March Bloch nell’introduzione alla sua Apologia della storia (1993): «Ogni volta che le nostre tristi società, in perpetua crisi di sviluppo, prendono a dubitare di se stesse, paiono domandarsi se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, o se l’abbiano interrogato bene». D’altronde l’economista Serge Latouche, che ho avuto la ventura di ascoltare in una affollata conferenza a Padova qualche anno fa, ebbe a sostenere che l’umanità ha sempre bisogno di piccole catastrofi per potere reagire, perché siamo animali più senzienti che riflessivi. Plasticamente mi viene alla mente una delle pagine più evocative di quel capolavoro che è La peste di Camus, che vale la pena leggere quasi per intero:

Nel mondo ci sono state, in ugual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com’egli sia stato diviso tra l’inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è troppo stupida”. E non c’è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce ne accorgeremmo se non pensassimo sempre a noi stessi. I nostri concittadini, a riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sono che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Continuavano a concludere affari e a preparare viaggio e ad avere opinioni. Come avrebbero pensato alla peste, che abolisce il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli. E persino dopo che il dottor Rieux ebbe riconosciuto davanti al suo amico che un gruppo di malati, senza preavviso, era morto di peste, il pericolo rimaneva irreale per lui. Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un’idea del dolore e si ha un po’ più di fantasia. Guardando dalla finestra la sua città che non era mutata, appena appena il dottore sentiva nascere in sé quel lieve scoramento davanti al futuro che si chiama inquietudine. Cercava di raccogliere nella mente quello che sapeva della malattia. Delle cifre gli ondeggiavano nella memoria, e si diceva che la trentina di grandi pestilenze conosciute dalla storia aveva fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando si fa la guerra, appena appena si sa cosa sia un morto. E siccome un uomo morto non ha peso che quando lo si è veduto, cento milioni di cadaveri sparsi attraverso la storia non sono che una nebbia nella fantasia. Il dottore ricordava la peste di Costantinopoli che, secondo Procopio, aveva fatto diecimila vittime in un giorno. Diecimila morti fanno cinque volte il pubblico d’un grande cinematografo. Ecco, bisognerebbe far questo: radunare le persone all’uscita di cinque cinematografi, condurle in una piazza della città e farle morire in un mucchio per vederci un po’ chiaro. Almeno, si potrebbero allora mettere dei visi noti su quel cumulo anonimo. Ma, naturalmente, è impossibile far questo; e poi, chi conosce diecimila visi? D’altronde, uomini come Procopio non sapevano contare, la cosa è notoria. A Canton, settanta anni or sono, quarantamila topi erano morti di peste prima che il flagello s’interessasse degli abitanti. Ma nel 1871 non c’era il modo di contare i topi. Si facevano i calcoli approssimativamente, all’ingrosso, e con evidenti probabilità di errore. Intanto, se un topo è lungo trenta centimetri, quarantamila topi farebbero…

Inutile dire che Rieux si comporterà da eroe civile tra malati e moribondi, facendo l’unica cosa ragionevole in mezzo al lazzaretto: aiutare gli altri. Ma il processo di rimozione investe anche uno come lui. Come tutti. Al tempo dei social e della mercificazione delle parole, si può pensare che la notizia sia oltremodo amplificata e tutti possono rielaborarla e commentarla. Ma attenzione, è ab origine che la scelta è selettivamente filtrata. Se c’è il coronavirus non ce n’è più per nessuno, né per i morti di Lesbo né per la resistenza curda, men che meno per la guerra civile in Venezuela o per l’invasione di locuste che sta distruggendo le piantagioni in Etiopia o tra il Pakistan e l’India. Le immagini che poi scorrono davanti a noi all’ora di cena dai telegiornali si confondono con le fiction da cui siamo assaliti diuturnamente; lo scarto tra realtà e irrealtà sembra annullato. Probabilmente anche il cumulo di topi di cui parla Camus non ci farà effetto finché non lo vedremo dalla finestra di casa. E in quella che viene considerata, inopinatamente, da Steven Pinker l’epoca più pacifica della storia, delle 196 nazioni esistenti nel mondo, almeno 69 di esse sono in guerra o vivono conflitti armati, 35% del totale, più di un terzo. Ci sono regioni remote ai nostri occhi, dove la gente convive con la guerra da decenni, nasce e muore in mezzo ad essa, ma in pochi lo raccontano perché non si trovano in arterie sensibili alle strategie geopolitiche e al traffico capitalistico. La questione del “numero”, con molta probabilità, è sempre dirimente.

Con buona pace di chi pensa che i tempi antichi siano da preferire per i limiti oggettivi dei conflitti e magari pensa che i moderni siano più perfidi dei loro avi, Jean Paul Sartre non sbaglia quando dice che i faraoni non erano migliori dei grandi dittatori del XX secolo, perché se avessero avuto la possibilità di uccidere cinquanta milioni di persone lo avrebbero fatto. E ancora, a risaltare nella mirabile pagina de La peste è il tema, antico, della colpa. Così c’è sempre il tentativo, talvolta assai maldestro, di trovare gli untori; ma una pandemia sa essere assai democratica e non conosce né etnie né frontiere, né condizioni socio-economiche, che comunque possono attutire ogni impatto perché i poveri sono sempre colpiti maggiormente dalle disgrazie che si aggiungono ai loro mali strutturali. Nel film Parasite, per esempio, la famiglia Kim si vede inondare il proprio sudicio appartamento seminterrato dall’alluvione mentre la ricca signora Park dice che un po’ d’acqua «può far bene all’aria»!

Ma torniamo alla domanda iniziale: può davvero insegnarci qualcosa la pandemia? È auspicabile, di certo sta contribuendo a sparigliare parole e concetti prima considerate torri eburnee e a focalizzarne di nuove. Me ne vengono in mente almeno tre. Una prima parola da riesumare è vulnerabilità: un duro colpo al nostro antropocentrismo se il salto di specie di un virus può mettere a repentaglio la nostra capacità di sopravvivenza- L’Antropocene appare sempre più l’anticamera dell’ecatombe globale, avendo l’uomo alterato l’equilibrio ambientale con la Natura che si sta riprendendo tutto, con gli interessi. La triste conta dei morti e dei contagiati, il dispiegarsi della pandemia, sembra minare le basi delle nostre placide certezze riguardo all’esistere e al perpetuarci. Di fronte a un nemico così acerrimo, possiamo momentaneamente solo contenere e mitigare gli effetti della sua furia funesta. Mentre le altre specie appaiono sostanzialmente immuni, quella umana sembra il bersaglio prediletto di una entità malvagia che ne vuole l’estinzione.

L’altra parola che stiamo riscoprendo è interdipendenza: mai come adesso la famiglia umana ha un destino intrecciato, perché ognuno è divenuto responsabile (responsabilità, parola non congeniale al popolo dei sopravviventi) per tutti gli altri, oltre nazionalità e continenti. E sempre di più, per la necessità della quarantena être solitaire signifie être solidaire. Per intanto il web prova ad accorciare le distanze, il lavoro, la scuola, ogni comunicazione diventa preziosa e anche la cultura per gli internauti di necessità è linfa per dare loro conforto, creare pensiero e veicolare bellezza. Erma bifronte l’interdipendenza, laddove la convivenza forzata può enfatizzare legami già solidi mentre può esasperare situazioni di per sé critiche annacquate dalla quotidianità. Mai come adesso gli altri possono essere l’Inferno o anche ancora di salvezza.

Un altro concetto da ridisegnare riguarda il tempo: il morbo costringe tutti all’attesa e il tempo sembra dilatarsi ancorato alle priorità medico-sanitarie. Giocoforza questo ci costringe a metterci di fronte a noi stessi, qui e ora, in un processo in cui l’esistenza precede l’essenza, ovvero la realità prevale sulle molte maschere che siamo abituati ad indossare quotidianamente e che ci lasciano una stanchezza obliante. Se dovessimo dare ascolto a Emil Cioran questa consapevolezza non è affatto un’esperienza edificante: «Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità». A meno di, seguendo quanto il succitato Camus scrive ne Le mythe de Sisyphe (1942), abbandonare ragioni e spiegazioni nell’assurda gratuità del vivere. Il tempo può essere anche occasione di dialogo con chi è talmente vicino a noi da venire oscurato dalle nostre corse ossessive; i greci distinguevano un tempo quantitativo e anonimo, il χρονος (chronos), da un tempo forte, qualitativamente, il καιρος (kairos), una nozione acquisita dai cristiani nel definire l’avvento del regno messianico. Tempo della coscienza e della resa dei conti, per misurare ciò che si è da quello che si vuole essere o non si vuole più essere. Tempo scandito dall’essenzialità: la quarantena è assai imparentata con la liturgica quaresima, tempo di grazia perché di attesa della rinascita. Tempo di speranza, perché fuggiti gli Dei, dobbiamo affidarci all’autorità civile che deve prendere decisioni per tutti, quindi necessariamente migliori e alla scienza, che ci farà uscire dalla pestilenza. La speranza, un concetto a primo acchito così poco laico, non è mai un lusso ma un calcolo calibrato e assennato: non si può scommettere sul pessimismo. Talvolta può apparire temeraria e irridente. Ritorna alla memoria il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere (1832) di Giacomo Leopardi dove la speranza, oltre l’evidenza degli anni che passano tutti uguali e contrassegnati dalla stessa attesa della felicità destinata a non arrivare mai, appare un benevolo balsamo per una reciproca consolazione.

Passeggere: “Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?”
Venditore: “No in verità, illustrissimo”.
Passeggere: “ E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?”
Venditore: “Cotesto si sa”.

E poco prima:

Passeggere: “Credete che sarà felice quest’anno nuovo?”.
Venditore: “Oh illustrissimo sì, certo”.

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