L’intraducibilità dell’essenza

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Di seguito trascrivo il mio intervento alla sezione del centro cultura indipendente Krinò, Workshop of Thinking, fondato dai filosofi Federico Sollazzo e Mária Kovács, 23 maggio 2021. Il titolo dell’incontro è “L’intraducibilità dei fenomeni” più dettagliatamente esplicato, nella presentazione, come “intraducibilità dell’essenza”.
Con la prima parte introduco agli astanti la struttura concettuale entro la quale mi muovo. Con la seconda parte entro in contatto diretto col tema in oggetto, toccandone alcuni punti. La prima parte riporta un leggero aggiustamento del mio discorso. La seconda parte invece riporta un leggero ampliamento.

 

1.
Per introdurmi al tema in oggetto vi chiedo di seguirmi in questo breve esperimento mentale: prendiamo questo oggetto e chiamiamolo “casa” in un linguaggio e “home” in un altro linguaggio. Abbiamo così uno steso oggetto al quale possiamo riferirci attraverso forme linguistiche differenti.
La differenza di queste forme linguistiche, il loro suono, metrica, forza e grammatica, fa si che utilizzando una o l’altra forma si generino mondi fenomenici diversi rispettivamente alle loro differenze. E non solo: la diversità dei linguaggi impatta in modo diverso anche sul nostro riferimento. Basti ricordare gli esperimenti di Emoto sull’acqua, per i quali, se parliamo con amore o con odio all’acqua, nel momento che andiamo a congelarla essa si cristallizza in maniera diversa rispettivamente all’amorevolezza o odio con cui le abbiamo parlato.
Da questo breve esperimento mentale ne ricaviamo due fatti importanti: il primo è che abbiamo una Costante, quello stesso riferimento davanti ai diversi linguaggi; il secondo è che abbiamo una Variabile, quel particolare linguaggio con cui ci riferiamo a quell’oggetto.
Ma cos’è questo riferimento costante, questa costante? Una costante è per esempio la velocità della luce la quale rimane la stessa indipendentemente dal suo mittente: sia che la luce venga emessa dal sole, da una lampadina o da una candela, la sua velocità è sempre la stessa. Parimenti il nostro esperimento: sia che lo chiamiamo casa oppure home, il nostro rifermento è sempre lo stesso. Questo riferimento costante è ciò che garantisce e giustifica l’isomorfismo dei linguaggi, ovvero il fatto, tra gli altri, che ogni concetto può essere espresso tramite tutte le lingue. Oltremodo la costante è ciò che ci permette un linguaggio pubblico, cioè la possibilità per più parlanti di discutere dello stesso oggetto. In ultimo, la costante è ciò che ci apre le porte alla traducibilità del linguaggio, a una sua particolare traducibilità, per la quale possiamo dire che home e casa hanno la stessa estensione, poiché si riferiscono allo stesso oggetto. E che l’estensione delle due parole sia la stessa, noi ne abbiamo certezza perché siamo noi ad averle così definite nel nostro esperimento, e quindi siamo certi che si riferiscono allo stesso oggetto.
Cos’è invece questa variabile? Abbiamo detto che la variabile, in questo contesto, è quel particolare linguaggio che utilizziamo per descrivere o indicare quel riferimento. Essa è ciò che ci permette di parlare della stessa cosa pur tramite linguaggi differenti. Infatti, nel nostro esperimento mentale, noi abbiamo la parola casa e la parola home che ugualmente si riferiscono allo stesso oggetto, sono cioè uguali in merito a quel riferimento, pur dando vita a mondi fenomenici distinti. Ma cosa vuol dire che due oggetti A e B sono uguali? Vuol dire che in determinati contesti essi possono essere intercambiati, ma non all’infinito, poiché solo ciò che è identico A=A è intercambiabile all’infinito, mentre ciò che è uguale A=B è intercambiabile soltanto in determinati contesti. Difatti le parole casa e home sono intercambiabili nel nostro esperimento mentale, ma se facciamo un gioco in cui possiamo utilizzare solo parole senza h, allora casa non è più intercambiabile con home. Mentre la parola casa è identica alla parola casa, pertanto possono intercambiarsi in qualsiasi contesto all’infinito (ovunque vi è la parola casa essa può essere intercambiata con la parola casa). Oltretutto la variabile non è solo ciò che ci garantisce di parlare ugualmente della stessa cosa anche attraverso linguaggi diversi, è anche ciò che ci permette di parlare differentemente dello stesso riferimento e quindi dire, per esempio, “a me il caffè piace” oppure “a me il caffè non piace”. Infine, se portiamo alle estreme conseguenze il concetto di variabile, essa è ciò che ci garantisce l’irripetibilità della parola, ovvero il fatto che ogni parola ed esperienza è irripetibile relativamente al contesto in cui viene espressa e al mittente che la esprime. Infatti, per quanto possiamo riferirci allo stesso oggetto con la parola casa, il modo che ho io di riferirmi non è identico al modo che ha un altro: per me la parola casa potrebbe avere un valore positivo e per un altro negativo, o anche qualora avesse per entrambi un valore positivo, il livello di positività che ha per me non è mai perfettamente identico al valore che può avere per un altro. Lo stesso dicesi per il precedente esempio sulla velocità della luce: per quanto essa sia la stessa sia se emessa dal sole o da una lampadina, il modo che ha il sole di emettere la luce è irripetibile dalla lampadina. Per giunta è irripetibile anche dagli altri soli. E di più: il modo che ha il sole di emettere la luce in questo momento non è identico, è quindi irripetibile, al modo con cui l’ha emessa il momento precedente. Così come il valore che assegno oggi alla parola casa è diverso dal valore che le davo vent’anni fa, anche se il riferimento è sempre lo stesso.
Possiamo riassumere questo breve esperimento mentale con le parole di Frege, opportunamente modificate:

  • Il senso è il riferimento costante del nostro discorso, è l’essenza della nostra narrazione, l’essenza;
  • Il significato è quel particolare linguaggio che usiamo per descrivere quel riferimento, è la narrazione che facciamo di esso, la narrazione.

 

2.
Abbiamo così che nessuna nostra narrazione potrà mai tradurre completamente l’essenza, poiché ogni narrazione è limitata dal proprio particolare linguaggio, dalle proprie categorie e schemi concettuali: ogni narrazione è solo una mappatura (significato) del territorio (senso) che descrive, quindi non potrà mai coglierne, per principio, l’essenza in quanto tale. Ciò non nega però di poterci avvicinare ad essa, addirittura di poterne anche descrivere aspetti di verità, così come una mappa è in grado di dirci con verità che troveremo ciò che noi chiamiamo “montagna”; anche se la sua verità in quanto essenza ci rimane ineffabile, asintotica.
L’essenza, il senso, il riferimento costante, rimane così nel campo dell’indisponibile, poiché fuori dalle nostre possibilità linguistiche. Eppur… quel nostro poterci avvicinare a essa, quella nostra capacità di narrarne addirittura aspetti di verità, è ciò che ci permette, attraverso linguaggi evocativi, intuitivi e semplici, di catapultarci in essa, cioè di raggiungere quello stato di ecstasy (dal greco “stare fuori”) e illuminazione che le sono propri e che altro non sono che, appunto, la presa dell’essenza in quanto tale.
L’utilizzo di linguaggi evocativi, intuitivi e semplici, può essere quindi uno dei mezzi che ci permette di “uscire fuori di sé” catapultandoci oltre i limiti del linguaggio stesso per giungere all’essenza ove ogni linguaggio si sgretola, uno stato di illuminante ecstasy ove ogni nostro tentativo di narrarla non fa altro che riportarci dallo stato di illuminazione a-linguistica allo stato mondano linguistico. Un’esperienza di ecstasy e di presa dell’essenza che pertanto rimane, per sua e nostra natura, intraducibile da qualunque nostra narrazione.

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