Giacomo Leopardi e il concetto di illusione

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Il concetto di illusione di Leopardi è stato minimizzato per tutto l’Ottocento e il primo Novecento a causa del materialismo del poeta che risultava inconciliabile con la cultura progressista. Con l’affermazione delle neoavanguardie sarebbe venuta meno questa posizione. La natura in Leopardi ha un alter ego; è come se questo rigettasse l’amore già dal grembo materno per accorgersi poi che la ragione, anche compiendo uno sforzo titanico, è priva di qualsiasi riferimento alla realtà. Questa possiede una valenza ossimorica ovvero è irrazionale. La realtà rappresenta la ragione stessa, ma ha in sé un conflitto interno che nasce dall’illusione che è propria dell’uomo visto che questi non comprende i limiti della realtà ovvero della ragione. Per Leopardi la natura è onnipresente, ci sorveglia in ogni nostra azione quotidiana, ma non può essere compresa da noi, perché ogni qualvolta vogliamo comprendere le sue intenzioni, essa è diventata altro da quello che ci aspettiamo di trovare. In effetti la natura è l’alter ego di noi stessi, di ciò che abbiamo nel profondo e che ci è incomprensibile. Perché succede questo? Perché natura e ragione sono la stessa cosa. Chiaramente in una prospettiva idealistica natura e ragione divergono alimentando così le nostre illusioni. La ragione rappresenta solo la parte visibile della verità producendo in questo modo una natura benevola, spettro delle nostre vane aspettative perché siamo incapaci di guardare ad un futuro certo. Incapaci perché ci autoinganniamo traditi da falsi bisogni che andiamo cercando nella società che ci vuole complici di un concetto di fratellanza che dovrebbe accomunarci tutti. In realtà noi non ci riconosciamo in esso perché non riusciamo a comprenderci l’un l’altro. Perché questa bizzarria? In effetti è la malattia mortale: noi vogliamo aspirare all’infinito, sorretti sia dalla volontà che dall’intelletto. Ma la prima viene frantumata dal frapporsi degli eventi tra un episodio e un altro della nostra vita, il secondo finisce sempre annullato dalla volontà a causa della quale produce solo fantasmi alimentando così la nostra ignoranza. Perciò orientarsi nella realtà diventa impossibile e la vita non è più distinguibile dal sogno. Attraverso il nostro slancio metafisico la realtà è per noi solo un’aspettativa dei nostri sogni che, in seguito all’impossibilità di realizzarli, ci proietta a livello cosciente la favola della bella natura. Siamo noi stessi la natura già nel grembo materno e, dopo essere nati, andiamo incontro progressivamente a una crisi di identità, ignari del nostro delirio. Perciò le nostre azioni, prive di un autentico riscontro nella realtà, non ci aprono le porte della vita eterna, ma di una conoscenza che ci condanna fatalmente perché non ne siamo noi i legittimi proprietari. Sulla base del materialismo illuministico Leopardi concepisce la materia come unica realtà e i sensi, che trasmettono ad essa le esperienze e le percezioni, come unica fonte di conoscenza, identificando di conseguenza come unica felicità il piacere legato ai sensi e alla materia. Così l’infelicità dell’uomo nasce dalla contraddizione tra il desiderio di un piacere infinito, che l’uomo stesso desidera, e le limitazioni che ci vengono poste della realtà. L’unico piacere possibile è quello illusorio che si può raggiungere, attraverso l’immaginazione, nel ricordo di un piacere passato o nell’attesa di un indeterminato piacere futuro. La teoria del piacere apre la strada al pessimismo cosmico del poeta: l’infelicità dell’uomo non è più il risultato di un processo storico, ma un dato assoluto ed ineliminabile di tutte le epoche che riguarda tutte le creature viventi compreso l’uomo:

[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, e la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o in quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza, e quindi, l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con sé materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere, la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e limitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166] trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago.1

Nella disputa letteraria che contrapponeva i classicisti ai romantici, Leopardi si schiera a fianco dei classicisti sostenendo, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), che la civiltà moderna, dominata esclusivamente dalla ratio, è ormai incapace di fare poesia in quanto ha perso l’immaginazione. Al contrario gli autori classici avevano la capacità di coltivare le illusioni, espressioni queste di un concetto di natura ancora non sottoposto al vaglio della ragione, comunicandole attraverso i loro versi. Al Romanticismo Leopardi quindi contesta di aver rotto il legame tra la poesia e la natura primigenia privilegiando così una spiritualità astratta ovvero priva del supporto dell’immaginazione:

Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale. Dice il Cavaliere (Ludovico di Breme) che la smania poetica degli antichi veniva soprattutto dall’ignoranza, per la quale maravigliandosi balordamente d’ogni cosa, e credendo di vedere a ogni tratto qualche miracolo, pigliarono argomento di poesia da qualunque accidente, e immaginarono un’infinità di forze soprannaturali e di sogni e di larve: e soggiunge che presentemente, avendo gli uomini considerate e imparate, e intendendo e conoscendo e distinguendo tante cose, ed essendo persuasi e certi di tante verità, nelle facoltà loro non sono, dic’egli co’ suoi termini d’arte, compatibili insieme e contemporanei questi due effetti, l’intuizione logica e il prestigio favoloso; smagata è dunque di questa immaginazione la mente dell’uomo. Ora da queste cose, chi voglia discorrer bene e da logico, segue ecessarissimamente che la poesia non potendo più ingannare gli uomini, non deve più fingere né mentire, ma bisogna che sempre vada dietro alla ragione e alla verità. E notate, o lettori, sul bel principio quell’apertissima e famosa contraddizione. Imperocché i romantici i quali s’accorgevano ottimamente che tolta alla poesia già conciata com’essi l’avevano, anche la facoltà di fingere e di mentire, la poesia finalmente né più né meno sarebbe sparita, e di netto si sarebbe immedesimata e diventata tutt’uno colla metafisica, e risoluta in un complesso di meditazioni, non che abbiano soggettata pienamente la poesia alla ragione e alla verità, sono andati in cerca fra la gentaglia presente di ciascheduna classe, e specialmente fra il popolaccio, di quelle più strane e pazze e ridicole e vili e superstiziose opinioni e novelle che si potevano trovare, e di queste hanno fatto materia di poesia; e quello ch’è più mirabile, intantoché maledicevano l’uso delle favole greche, hanno inzeppate ne’ versi loro quante favole turche arabe persiane indiane scandinave celtiche hanno voluto, quasi che l’intuizione logica che col prestigio favoloso della Grecia non può stare, con quello dell’oriente e del settentrione potesse stare.2

Poiché nasce da una tensione dell’animo e dal desiderio di recuperare una perduta armonia, il classicismo leopardiano condivide alcuni aspetti del Romanticismo: l’amore per l’immaginazione, l’attenzione al dolore esistenziale, alla sproporzione tra ideale e reale. Tuttavia diversi elementi allontanano la poetica leopardiana dagli atteggiamenti romantici: il materialismo, il razionalismo illuminista, il rifiuto dello spiritualismo. Evidenti risultano poi le differenze di Leopardi con il Romanticismo italiano, evidenti nel privilegiare la soggettività anziché la realtà oggettiva, nella critica alla storia e al progresso e nella distanza dal cattolicesimo. Mentre i romantici italiani attribuivano al poeta una funzione sociale ovvero quella di poeta-vate, capace di guidare i destini di una nazione, per Leopardi la poesia ha una funzione più profonda e universale cioè confortare l’uomo per la condizione dolorosa dell’esistenza. Una prima azione di conforto della poesia è la poetica dell’indefinito e del vago; poiché l’uomo aspira ad un piacere assoluto nello spazio e nel tempo il poeta deve rispondere a tale indefinita aspirazione attraverso un’espressività indeterminata cioè facendo ricorso a situazioni vaghe in modo da stimolare l’immaginazione grazie alla quale l’uomo può godere di piaceri illimitati. Perciò Leopardi utilizza termini di ampio spessore che suscitano l’idea di una immensità senza limiti3, dell’attesa4 e del ricordo5 capaci di alimentare l’illusione del piacere. Dal 1823 al 1827 Leopardi si allontana dalla poesia per dedicarsi alla prosa, quella delle Operette morali, impegnata a trasmettere non solo concetti filosofici, ma anche a elaborare una lingua che sia garanzia di uno stile che rispecchi la pienezza dei pensieri e delle cose. In questo caso Leopardi vive un momento di riflessione sulle effettive possibilità del suo modo di scrivere. Questo momento consta di due fasi: una, che possiamo definire mitologica, ed un’altra, che possiamo definire logica. La prima serve al poeta per affermare il proprio livello creativo che dovrebbe significare la sua identità, la seconda invece serve al poeta per ritrovare le proprie emozioni ed è sempre accompagnata dall’ansia di vivere per la coscienza della morte. Questo momento di riflessione comporta che Leopardi non è capace di fissare i limiti della propria scrittura e allora significante e significato non possono coincidere nell’attesa onirica dell’avvenire; ciò comporta che nelle Operette morali il contesto di riferimento dei personaggi non è adeguato a soddisfare le loro aspettative:

Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.6

Una condizione questa che porta già in sé gli elementi del suo superamento e il confronto dialettico con la realtà che adesso è ancora limitato alla fase mitologica del momento di riflessione del poeta. Ciò è dovuto al fatto che i ricordi di Leopardi sono frammentari e quindi non adatti a rendere oggettiva la fase logica del suo momento di riflessione ovvero le emozioni del poeta, pur impregnate di un nascente titanismo, non sono abbastanza forti per allontanare da lui la coscienza della morte. Nel 1828 il ritorno alla poesia rappresenta una nuova fase della poetica leopardiana nella quale poesia e filosofia si fondono in un confronto dialettico con la realtà: la poesia non è più in grado di produrre le illusioni della giovinezza, ma adesso vuole diffondere la triste verità tra gli uomini in modo che questi la accettino con pacata rassegnazione. L’ultima fase della poetica leopardiana è decisamente antidillica, depurata da qualsiasi descrizione paesaggistica e da immagini indefiniti e vaghe: nella Ginestra la violenza di una natura possente, mitigata solo dal profumo della ginestra, rappresenta una dichiarazione di poetica in forma di allegoria ovvero la forza della rappresentazione costituisce l’ultimo vano tentativo dell’uomo di opporsi al proprio destino:

Qui su l’arida schiena
Del formidabile monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.7

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