Anassagora e il pensiero biomedico contemporaneo

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Come spesso accade nella secolare storia del pensiero scientifico, i filosofi ‘presocratici’1 sono portatori di profonde intuizioni che hanno anticipato di secoli concetti poi sviluppati nel corso della storia della scienza. Se nella scienza fisico-matematica, ad esempio, il pensiero atomistico di Leucippo e Democrito si è dimostrato essere il più incline a favorirne lo sviluppo (sebbene recentemente il fisico Carlo Rovelli richiami, in un suo saggio, nientemeno che il pensiero di Anassimandro), per quanto attiene alle scienze bio-mediche, fatto salvo ovviamente il pilastro del corpus hippocraticum (seconda metà del V secolo a.C.), non sempre si è evidenziata a sufficienza l’importanza del pensiero di Anassagora.

Il filosofo di Clazomene (500-496 a.C.) visse ad Atene nel periodo aureo (il V secolo a.C., fu sodale di Pericle, del quale condivideva l’orientamento democratico, venne poi accusato di empietà (asèbeia) e condannato a morte, avendo negato l’esistenza degli dèi nonché introdotto teorie ‘empie’ circa la natura dei fenomeni celesti (il sole, ad esempio, non era altro che una pietra infuocata);2 si salvò rifugiandosi a Lampsaco dove morì nel 482. L’opera di Anassagora, della quale ci sono giunti molti frammenti, è intitolata tradizionalmente Intorno alla natura (perì physeos): in essa troviamo numerose intuizioni che, se adeguatamente comprese e interpretate, sembrano rivelare una sorprendente consonanza con le attuali direzioni di ricerca di quell’area biomedica, le cui basi di partenza, com’è ampiamente noto, furono gettate dalla scoperta della struttura elicoidale del DNA nel 1953 da parte di Watson e Crick.

Per una adeguata comprensione dei frammenti occorre, tuttavia, inquadrare la posizione anassagorea all’interno del contesto filosofico rappresentato dall’eleatismo parmenideo, del quale vengono recepiti gli assunti logici fondamentali: l’assoluta identità, eternità e staticità dell’Essere, da un lato, e l’assoluta impossibilità logico-ontologica che da qualcosa come il “non-essere” possa derivare o generarsi alcunché, dall’altro. «Gli sembrava infatti che fosse assolutamente inspiegabile [aporōtaton] come qualcosa possa generarsi dal niente o corrompersi nel niente [pōs ek tou mē ontos dunatai ti ginesthai ē phtheiresthai eis to mē on]».3

La base concettuale di Anassagora è rappresentata dalla nozione di semi (spèrmata, che Aristotele traduce in maniera diversa, con il termine di omeomerie) qualitativi e infinitamente divisibili, di cui tutto l’essere è composto, originariamente avviluppati in un miscuglio confuso e disordinato (migma); sotto questo profilo si comprende come nel frammento 17 la nascita degli esseri naturali venga vista come una “riunione” di semi mentre la morte una loro “separazione”:4 insomma, la materia ‘seminale’ è eterna e subisce continue trasformazioni. Ciò che opera attivamente nel passivo e indifferenziato miscuglio, promuovendone le varie e infinite aggregazioni delle forme viventi, pur rimanendone separato, è l’Intelletto (nous), concetto quanto mai problematico e variamente interpretato. È assai noto che Platone e Aristotele lodarono la superiorità del nous in quanto estraneo alla materia bruta, attribuendogli il ruolo di mente razionale ordinatrice in vista di un fine superiore. Ma una simile concezione teleologica della natura, nel senso aristotelico di una causa finale pre-ordinata da un intelletto puro superiore alla materia, è assai diversa dalla concezione di Anassagora: egli, coerentemente con il suo ‘materialismo seminale naturalistico’, interpreta ogni evento naturale in termini meccanici nelle sue teorie cosmologiche, compreso il caso del meteorite di Egospotami o di puri eventi teratogenoformi, come anche nel caso della testa di un montone con un solo corno. D’altra parte, come è stato sottolineato, «l’impostazione del problema di Anassagora non era quella di un aitiologo, ma di un fisiologo».5

Premesso ciò, possiamo fare riferimento a quelle nozioni e a quei testi che più o meno direttamente evocano suggestivi accostamenti alle moderne teorie epigenetico-nutrigenomiche che rappresentano l’attuale frontiera avanzata della ricerca clinico-sperimentale in campo bio-medico. Anzitutto potremmo partire dall’idea secondo la quale i semi, potenzialmente, possono assumere qualunque forma vivente: sotto questo profilo, non si possono non evocare le cellule staminali totipotenti, dalle quali si generano tutti i tipi di tessuti e di organi dei vari apparati di un organismo; ciò che conta sottolineare, in questo contesto, è ovviamente la remota intuizione che i fenomeni, come vengono conosciuti, non sono altro che l’aggregazione di elementi congeneri, distinti in base alla prevalenza di un elemento specifico che predomina rispetto ad altri (ad esempio la prevalenza di un amminoacido rispetto ad altri che determina la specificità di quella proteina) così come nell’oro predominano i semi di oro benché in essi siano rilevabili tracce di altri semi-elementi. Come già detto, il principio razionale che promuove la genesi di tali aggregati è il famoso Intelletto che rappresenta, tutt’al più, la causa meccanica generatrice.

Le maggiori evidenze delle intuizioni anassagoree si hanno, tuttavia, in quelle testimonianze e frammenti che fanno diretto ed esplicito riferimento al cibo e alla nutrizione: in questi testi sono già presenti alcune intuizioni che potremmo definire ‘nutrigenomiche’: i nostri tessuti e organi contengono esattamente gli stessi semi del cibo che assimiliamo quotidianamente, altrimenti non si comprenderebbe come il pane possa poi trasformarsi in carne, ossa, vene, nervi ecc. Come già sottolineato, il principio logico sotteso è rappresentato dal divieto parmenideo che l’essere possa generarsi dal non essere, pertanto nel pane sono già contenuti anche gli identici semi di ciò che poi si trasformerà nei vari tessuti e organi del nostro corpo. Insomma, postulato che nel cibo sono già compresi tutti gli elementi necessari alla vita e alla buona salute del nostro organismo, il passo concettuale che conduce a considerare il cibo come potenziale farmaco per prevenire e curare le malattie è abbastanza breve. E se la buona salute dipende dal patrimonio genetico ereditato e dalla buona alimentazione (senza dimenticare lo stile di vita, la salubrità dell’aria, dei luoghi ecc.) è perché in essa stessa sono contenuti anche i principi che possono combattere le malattie inibendo specifici agenti patogeni: quando si fa riferimento alla ormai famosa “dieta mediterranea”, i cui principi nutrizionali furono studiati dal fisiologo americano Ancel Key (1904-2004) negli anni Cinquanta, esaminando la dieta di un paesino di pescatori campani (Pioppi), si afferma, in sostanza, la possibilità di evitare patologie organiche attraverso l’assimilazione di quei nutrienti che sono in grado di curare il nostro organismo, inibendo o neutralizzando gli effetti potenzialmente dannosi delle migliaia di reazioni chimiche che si svolgono nel quotidiano metabolismo all’interno del nostro corpo. Sotto questo profilo l’esempio più noto è forse quello dei “radicali liberi”, sostanze chimiche che circolano nell’organismo come prodotto di vari processi metabolici, che possono ossidare, cioè danneggiare, lo stesso DNA cellulare, quindi tessuti, organi e apparati se non vengono neutralizzati con i famosi “antiossidanti” (contenuti prevalentemente nella frutta e nella verdura); questi sono in parte prodotti dal nostro corpo ma non sempre in quantità sufficienti, soprattutto se nella nostra alimentazione e per via del nostro stile di vita introduciamo altrettante sostanze ossidanti producendo uno squilibrio che sta alla base di processi degenerativi e, secondo alcuni studiosi, dell’invecchiamento stesso. Sotto profilo sociologico sarebbe interessante studiare il campo dell’industria farmaceutica nel suo complesso (che produce integratori contenenti antiossidanti) e quelle teorie “salutistiche”, spesso pseudo-scientifiche, che inducono i consumatori dei paesi industrializzati a fare un uso massiccio e sostanzialmente inutile di antiossidanti.

Ad una riflessione più attenta si rivela però come le basi scientifiche della nutrigenomica, che combina insieme genetica e nutrizione (si pensi a Pitagora, che invitava ad astenersi dal consumo delle fave: probabilmente gli erano note le gravi reazioni anafilattiche in chi soffre di questa grave forma di allergia) siano fondate appunto sulla disciplina scientifica che dalla genetica deriva, ovvero l’epigenetica,6 nella quale, forse paradossalmente, trova nuova accoglienza la teoria lamarckiana della ereditarietà dei caratteri acquisiti, soppiantata dalla teoria evoluzionistica darwiniana. Il rapporto che intercorre tra genetica ed epigenetica, per usare una metafora, è analogo a quello che intercorre tra il testo di una partitura musicale e la sua esecuzione. Il nostro genoma, le cui basi azotate sono identiche in ogni vivente (Adenina, Citosina, Guanina e Timina-Uracile) è come la partitura musicale che contiene tutte le note necessarie a eseguire un brano e ovviamente la loro diversa sequenza e disposizione nel pentagramma determina i diversi motivi eseguibili: l’esecutore legge il pentagramma e decide quali note suonare, determinando l’armonico svolgimento dei vari suoni-note che compongono la melodia. Restando nella metafora, l’epigenetica svolge il ruolo di lettore-interprete-esecutore del brano musicale, facendo attenzione ad attivare solo quei geni che sono alla base delle sequenze di amminoacidi che stanno alla base delle proteine: ovviamente, come in musica l’errata esecuzione di una nota altera l’armonia, allo stesso modo l’attivazione del gene non corretto determinerà l’alterazione di tutta la sequenza, spesso con effetti patogeni per la salute. Le recenti scoperte della genetica sottolineano il fatto che se il genoma individuale è un testo fisso, da un lato, dall’altro però la lettura di quel testo risulta fortemente influenzata da fattori acquisiti attraverso l’ambiente e soprattutto l’alimentazione, ed è proprio qui che entra in gioco il ruolo della nutrigenomica. Sono assai noti, per esempio, gli effetti preventivi che l’acido folico svolge nella prevenzione di seri problemi dei nascituri, al punto che la medicina ne prescrive l’assunzione durante la gravidanza sotto forma di integratori soprattutto nei soggetti a rischio: un’alimentazione ricca di folati rappresenta comunque una buona pratica preventiva. Attraverso il cibo, però, è anche possibile non soltanto ritardare, fino a un certo punto, gli inevitabili effetti dell’invecchiamento cellulare, alla base di varie patologie, ma anche impedire l’espressione di determinati geni ereditati nel genoma che sono alla base di predisposizioni individuali per certi tipi di malattie: si conferma, quindi, la stretta relazione intercorrente tra epigenetica e nutrigenomica, la cui ancestrale intuizione troviamo già nel pensiero del filosofo dell’antichità. Si conferma, tra l’altro, l’antico adagio di Galeno per il quale «il miglior medico è anche filosofo».

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