Gli errori di Darwin

Feltrinelli, Milano 2010
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Ci sono libri che sono importanti perché prospettano un nuovo modo di inquadrare determinati fenomeni o aspetti della realtà, così da risolvere almeno qualcuno dei problemi ancora aperti. Altri libri, sicuramente molto meno numerosi dei primi, si impongono invece all’attenzione, offrendo un contributo di rilievo al progresso della conoscenza, per la loro capacità di mostrare gravi lacune nei modelli di spiegazione esistenti, aprendo così la strada all’elaborazione di nuove ipotesi.

Gli errori di Darwin, di Massimo Piattelli Palmarini e Jerry Fodor, appartiene senz’altro a questa seconda categoria. In esso, gli autori, partendo dall’esame di circa 200 lavori specialistici nel campo della genetica, dell’embriologia e della ricerca biomolecolare pubblicati negli ultimi decenni, sostengono che l’idea darwiniana dell’evoluzione, basata sulla produzione casuale di mutazioni e sulla selezione naturale, è ormai da ritenersi largamente insufficiente per spiegare la comparsa e lo sviluppo delle caratteristiche che si osservano nelle specie viventi.

Palmarini e Fodor sono ben consapevoli di quanto radicato sia il darwinismo nella cultura contemporanea, tanto che qualsiasi dubbio od obiezione espressi nei suoi confronti vengono facilmente interpretati come inaccettabili cedimenti nei confronti del versante opposto, quello del creazionismo o dell’intelligent design. «Il neo-darwinismo – essi scrivono – è assunto come un assioma: non viene mai, letteralmente, messo in questione. Una concezione che sembri contraddirlo, direttamente o per implicazione, è ipso facto rifiutata, per quanto plausibile possa sembrare. Interi dipartimenti, riviste e centri di ricerca operano secondo questo principio»1. Questo è il motivo principale che spinge gli autori a esordire, sin dalla prima pagina, con le seguenti dichiarazioni:

Questo non è un libro su Dio, non è un libro sul “disegno intelligente”, non è un libro sul creazionismo. Nessuno di noi ha a che vedere con queste cose. Ci è sembrato opportuno metterlo bene in chiaro subito, perché la nostra affermazione principale, nelle pagine che seguono, sarà che c’è qualcosa di […] fatalmente sbagliato nella teoria della selezione naturale; e ci rendiamo conto che, persino fra quelli che non sono nemmeno sicuri di cosa sia, l’adesione al darwinismo è diventata una cartina di tornasole per stabilire chi possiede una concezione del mondo “realmente scientifica”, e chi no. “Bisogna scegliere fra fede in Dio e fede in Darwin; e se si vuol essere umanisti laici, meglio optare per la seconda”. […] Vogliamo decisamente aderire all’albo degli umanisti laici. In effetti entrambi ci proclamiamo atei – completamente, ufficialmente, fino all’osso e irriducibilmente atei. Perciò cerchiamo spiegazioni esclusivamente naturalistiche dei fatti dell’evoluzione, anche se pensiamo che si mostreranno molto complesse, come spesso sono le spiegazioni scientifiche. Siamo convinti che l’evoluzione sia un prodotto totalmente meccanico e siamo convinti che questo escluda non solo cause divine ma anche cause finali, élan vital, entelechie, interventi di alieni extraterrestri e altre cose simili2.

Fissata in modo inequivocabile la loro collocazione rispetto alla scienza, Palmarini e Fodor utilizzano i primi tre capitoli della loro opera per passare in rassegna un gran numero di fatti e di nuovi meccanismi non selettivi scoperti nella biologia negli ultimi anni. Tra questi, credo sia utile ricordare brevemente i seguenti:

Trasferimento genetico orizzontale: trasmissione di geni che non avviene nel modo tradizionale, cioè tramite il passaggio da una generazione all’altra (trasmissione “verticale”), bensì tra specie che vivono una accanto all’altra, nello stesso tempo (ecco perché si parla di trasmissione “orizzontale”). Questo tipo di trasmissione genetica ricorda molto da vicino il modo in cui i virus infettano le cellule viventi, ed è molto diffuso tra i microrganismi, ma si verifica talvolta anche nelle specie superiori3.

– Fenomeno della spinta molecolare, per cui tutti i genomi vengono resi più complessi da meccanismi di turnover. Si tratta nello specifico di conversioni di geni, trasposizioni, scivolamenti, incroci tra cromosomi e altri fenomeni che portano una singola mutazione, in un singolo gene, in un singolo cromosoma, a diffondersi col passare delle generazioni, entro tutta la popolazione che si riproduce sessualmente4.

– Fenomeno del free riding, che fa riferimento a tratti fenotipici inizialmente neutri sotto il profilo adattativo, che vengono – per così dire – trascinati da altri tratti, selezionati perché favorevoli all’adattamento5.

– Fenomeno dell’inibizione: alcune mutazioni potenzialmente dannose (lo sarebbero se venissero espresse subito) possono rimanere inerti per molto tempo, mentre vengono trasmesse da una generazione all’altra, finché qualche mutazione o qualche importante modificazione dell’ambiente non le attiva, facendo di quel genotipo un fenotipo corrispondente6.

– Origine genetica indipendente. Un caso molto significativo dell’importanza dei vincoli endogeni è dato dalla formazione nell’occhio in specie tra loro molto distanti. Sono infatti stati scoperti gli stessi geni fondamentali per lo sviluppo dell’occhio in classi e specie largamente divergenti tra loro (nelle meduse, nei moscerini della frutta, nei vertebrati e persino nel riccio di mare – animale privo di occhi – nel quale tali geni restano inespressi)7.

Queste scoperte (Palmarini e Fodor ne riportano molte altre) dimostrano che il neo-darwinismo tradizionale è un modello decisamente troppo stretto per riuscire a spiegare in modo esauriente l’evoluzione. Tali scoperte ci dicono infatti che all’interno dell’evoluzione agiscono altri fattori che non rientrano nello schema canonico basato su piccoli cambiamenti fenotipici generati in modo casuale successivamente sottoposti al filtro della selezione esogena da parte dell’ambiente. Si tratta di vincoli che agiscono all’interno degli organismi, a diversi livelli, condizionando sia la forma assunta dalle mutazioni, che il loro eventuale fissarsi stabilmente nel genoma, così da poter essere trasmesse alle generazioni future8.

Oltretutto, il neo-darwinismo – sempre secondo Palmarini e Fodor – non è in grado di spiegare caratteristiche importanti che troviamo nelle specie viventi, come la straordinaria organizzazione delle reti di circolazione del sangue nei tessuti e i collegamenti nervosi nelle diverse specie animali, disposti in modo da ottimizzare la lunghezza delle connessioni. Viene riportato l’esempio del sistema nervoso del verme nematoide (il primo ad essere completamente mappato), nel quale la configurazione effettiva degli 11 gangli è, fra circa 40 milioni di possibilità alternative, quella che minimizza la lunghezza dei collegamenti. I problemi di ottimizzazione delle reti sono assai difficili da risolvere, poiché la loro complessità aumenta esponenzialmente col crescere dei fattori coinvolti9. Se si considera sotto questo profilo il caso dell’uomo o degli animali superiori, ci troviamo davanti a numeri spaventosamente grandi di “possibilità da esplorare” per arrivare a soluzioni ottimali. Anche aumentando gli spazi e i tempi a disposizione della selezione naturale di molti ordini di grandezza, non si giungerebbe neppure lontanamente ai risultati che possiamo osservare negli organismi viventi10.

È ipotizzabile – si chiedono gli autori – che nel corso di migliaia di generazioni siano state tentate a caso configurazioni neuronali (processi casuali per tentativi ed errori), selezionando a poco a poco le forme migliori? O siamo di fronte a una situazione di vincoli di ottimizzazione fisici che orientano i tratti genetici, dello sviluppo e del comportamento?11 Quest’ultima possibilità è precisamente l’ipotesi a cui Palmarini e Fodor sembrano guardare con maggior attenzione per ampliare le prospettive del neo-darwinismo tradizionale e pervenire a una teoria più articolata che tenga conto anche di tutti quei fatti che oggi siamo costretti a collocare ai margini dello schema esplicativi di cui disponiamo. Con ciò i nostri autori non intendono affermare che la selezione naturale non esiste e che essa non svolge alcun ruolo nelle modificazioni che avvengono negli organismi viventi. Più modestamente, vogliono dire che si tratta di fenomeni assai più marginali nella comparsa di nuove specie e di moltissimi tratti biologici di quanto comunemente si crede12. Anche se questo non significa che bisogna rinunciare all’idea che «la fissazione dei fenotipi sia qualcosa di diverso da un processo completamente deterministico, causale e sottoposto a leggi»13.

Gli errori di Darwin rappresenta indubbiamente un lavoro coraggioso che merita di essere segnalato per la sua carica dirompente nei confronti di una concezione che viene ormai utilizzata, spesso in modo automatico e del tutto acritico, per spiegare qualsiasi tratto nel mondo biologico. Non solo. Come gli stessi autori ricordano nell’Appendice, tale concezione tende sempre più a venir estesa anche a discipline vicine alla biologia, quali la psicologia, la filosofia della mente e la teoria del linguaggio14. Diventa quindi quanto mai urgente saggiarne l’affidabilità, anche nella considerazione del crescente numero di osservazioni empiriche che si fa sempre più fatica a conciliare con essa.

Cosa si può dire delle argomentazioni sviluppate da Palmarini e Fodor? Certo, sarebbe quantomeno discutibile mettere in dubbio la veridicità dei “fatti” da cui tali argomentazioni traggono spunto. Personalmente, condivido in pieno la tesi di fondo sviluppata dagli autori, secondo la quale il neo-darwinismo, così come oggi viene concepito, presenta gravi lacune e abbisogna di una profonda revisione. Quello che mi sento di rimproverare loro è il non “aver osato di più”, in particolare ponendo, sì, l’accento su molti fatti non presi in considerazione dall’evoluzionismo consolidato, ma rimanendo tuttavia ben ancorati alla convinzione, espressa in più punti, che qualsiasi alternativa non potrà che richiamarsi a processi del tutto meccanici e riconducibili a leggi ben definite.

Quando ci si trova davanti a scoperte che ci mostrano la capacità dell’evoluzione di dar luogo, ripetutamente e in luoghi diversi, a strutture altamente improbabili, come l’organizzazione dei sistemi nervosi o delle reti di distribuzione del sangue, è difficile continuare a credere all’onnipotenza delle capacità combinatorie del caso, comunque esso venga concepito. Non fa molta differenza, infatti, se la produzione di mutazioni viene attribuita soltanto ad eventi aleatori che interessano le basi di cui è costituito il materiale genetico, come quelli legati a radiazioni, all’azione di sostanze chimiche o addirittura a fluttuazioni quantistiche; oppure se vengono chiamati in causa anche altri meccanismi, quali quelli che agiscono a livello di geni, cromosomi, interi genomi e addirittura nella formazione dei caratteri fenotipici delle diverse specie viventi. Tutti questi fenomeni, per come vengono presentati, non sembrano avere una qualche relazione con l’adattamento, intendendo con questo che la logica che sottostà all’organizzazione delle diverse strutture è da considerarsi del tutto priva di corrispondenze con la logica selettiva attraverso cui l’ambiente agisce sui tratti fenotipici. Guardata dallo specifico punto di vista di quest’ultima, la generazione di nuovi caratteri si comporta infatti come se fosse del tutto casuale, anche se non lo è nei fatti. Ampliare il campo dei fenomeni che intervengono nel processo evolutivo aumenta un po’ la quantità e la varietà dei fattori che bisogna prendere in considerazione ai fini di una spiegazione dell’evoluzione biologica, ma non modifica la sostanza delle problematiche legate alla comparsa di strutture altamente improbabili.

Se poi si ipotizza – come si direbbe che Palmarini e Fodor vogliano suggerire – che esiste una qualche corrispondenza tra vincoli endogeni, quelli che condizionano la forma assunta dalle strutture biologiche, a qualsiasi livello, e i vincoli esogeni, che fanno riferimento alle esigenze adattative degli organismi, rimane da provare, nei suoi diversi e implicazioni, che sia veramente così. Nell’attesa che ciò accada, viene da osservare che tale concezione ci porta pericolosamente vicino all’idea base dell’intelligent design, per la quale sin dall’inizio dei tempi qualcuno (o qualcosa: la distinzione è, tutto sommato, secondaria) ha fatto in modo che ci fossero leggi (o relazioni) favorevoli all’evoluzione della vita. Del resto, l’ipotesi che i principi che governano l’organizzazione delle strutture genomiche e lo sviluppo dei fenotipi possano avere un qualche rapporto con i principi attraverso cui agisce la logica selettiva dell’ambiente è problematica anche per un altro motivo: l’adattamento non è un concetto assoluto, immutabile nel tempo e nello spazio, ma è relativo agli ambienti e agli organismi che vi abitano.

In conclusione, credo di poter dire che la concezione proposta da Palmarini e Fodor, seppure muove qualche timido passo in direzione di un superamento degli attuali limiti della teoria dell’evoluzione, è da considerarsi ancora largamente insufficiente per preparare il terreno alla grande rivoluzione concettuale che presumibilmente si richiede per dare soluzione ai formidabili problemi che aspettano di essere risolti. Si tratta di scenari che allo stato attuale delle nostre conoscenze possiamo intravedere solo molto confusamente, perché probabilmente collocati al di là delle categorie concettuali a cui oggi facciamo riferimento. Per questo, mi sembra appropriato concludere questa breve analisi del libro di Palmarini e Fodor con la seguente affermazione di un professore universitario, riportata senza commenti nel libro stesso:

È possibile che ci sia qualcosa che non comprendiamo affatto, qualcosa di così diverso da quanto pensiamo oggi che ancora non ci riesce di pensarlo15.

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