La vertigine della guerra

tr. it. e cura di M. Tabacchini, S. Uberti ed E. Verzegnassi; Casa di marrani, Gussago (BS) 2014
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Sì rade volte càpita di trovarsi di fronte a un libro ben fatto, che quando accade ne si rimane contenti, oltre che ammirati. Perché questo, sfornato abbastanza di fresco dalla piccola ma bella “Casa di marrani”, è davvero un buon libro, da tutti i punti di vista. Caillois è una garanzia; la scelta depone già a favore. Ma poi: bella impaginazione, buona traduzione, ottima introduzione.

E proprio da quest’ultima potremmo cominciare, perché l’introduzione di Gianluca Solla è in realtà un saggio interessante e vivace che prende le mosse da una questione linguistica per slargarsi in una considerazione squisitamente filosofica della guerra, sulla scorta soprattutto del grande Guicciardini. Così, si comprende come il nostro modo di pronunciare lo scontro concertato e più o meno organizzato tra fazioni avverse, ossia la “guerra”, deriva dalla parola di origine germanica wërra, che ha soppiantato – verrebbe da dire “sconfitto” – il latino bellum. Il linguaggio segna come una meridiana gli snodi principali della storia: a segnare lo stacco tra antichità e modernità è proprio il passaggio dall’ordinato bellum alla “caotica” wërra (il cui significato originario – nota Solla – indicava appunto il disordine, la confusione e la mischia).

Una delle caratteristiche fondamentali di questo tipo di conflitto è che «nella ferocia della wërra si annuncia una guerra che non ha più bisogno di venire dichiarata per essere in atto: il suo inizio, svolgimento e termine hanno luogo senza che sia necessario attenersi a regole precedentemente stabilite. La wërra coltiva un altro rapporto sia con il tempo che con lo spazio, dunque con la morte: è guerra nel senso di farsi produzione di morte, ovvero assoggettamento della morte ai fini della propria realizzazione» (pag. XIV).

Questo scarto abbastanza brutale ci svela forse molto più di quanto potrebbe sembrare, perché forse serve a scrutare dietro la maschera dei conflitti antichi o cavallereschi, mostrandoci il vero volto del nostro essere umani. Sì, è vero, come giustamente afferma Solla, la guerra «implica una domanda posta e continuamente riposta, almeno da quanti la avvertono come tale: cosa significa essere uomini?» (ibidem). Ma a volte la risposta alle domande si ritrova in ciò da cui esse scaturiscono. In fondo, l’analisi schiettamente filosofica sulla guerra – suggerirà Caillois – è cosa affatto moderna, anzi forse completamente inserita nel solco della contemporaneità (Caillois, a ragione, individua il vero inizio di tale indagine nella Fenomenologia dello spirito di Hegel). Perché l’uomo contemporaneo vive solamente – mi si conceda il calembour – un conflitto non bellum? La risposta potrebbe darsi nello smascheramento del conflitto in sé, che dietro la maschera e il belletto dello scontro cortese nasconde la volontà di annientamento reciproco che è la vita (dell’uomo) come la conosciamo. Per essere “due”, il conflitto dev’essere o negato o radicalizzato. La confusione della wërra agita le acque stagnanti della pace, come se si sostentasse della costante volontà della reductio ad unum. Pertanto, suona condivisibile la conclusione di Solla:

Ogni volta che è introdotta nel segno del due, della differenza, la guerra significa infatti nel senso di quella strana connessione con l’arte, che un tempo ha dato origine all’espressione “arte della guerra”. Se la guerra è stata o ha potuto essere arte – cioè un movimento che procede dallo scarto e dal contrappunto – lo è stata innanzitutto nel senso di produrre o provocare trasformazioni in se stessi, queste sì realmente vertiginose. Il sospetto è che ci sia stata lasciata la guerra, ma soffiata via la vertigine. Ma una guerra senza vertigine, senza altezza né conflitto, senza contrappunto né differenza, non conosce altro orizzonte che quello della distruzione, ovvero di una relazione volta all’identico. Pertanto essa non mira che al cadavere (pagg. XXXII-XXXIII).

Da qui possiamo gettarci a capofitto nel saggio di Caillois, in bilico – molto francese, in questo – tra storia e filosofia, sociologia e antropologia. Invero, a conti fatti, sembra che Caillois abbia voluto tentare di porre le basi per una genuina filosofia (contemporanea) della guerra, a partire da una notevole mole di dati e documenti storici. In effetto, il suo «non è uno studio della guerra in sé, ma della fascinazione che la guerra esercita sul cuore e sull’animo umani» (pag. 3).

Il nodo fondamentale che questo scritto tenta di sciogliere è quello del rapporto tra guerra e civiltà, o anche, da un certo momento in poi e in maniera più pregnante, tra guerra e stato. Il rapporto sembra essere di interdipendenza, tanto che, nelle parole di Caillois, «salvo dal punto di vista morale e per quel che riguarda l’etimologia, è inesatto considerare la guerra come il contrario della civiltà: l’accompagna come la sua ombra e cresce insieme a essa. Neppure risulta vero, come molti hanno preteso sostenere, che la guerra sia la civiltà stessa e che in qualche modo la prima generi la seconda: la civiltà è opera di pace. Tuttavia la guerra esprime la civiltà. In realtà non è altro che una certa modalità d’esistenza delle società, nella quale tutte o parte delle forze produttive di una nazione si trovano deviate verso compiti di distruzione o di protezione contro di questa» (pag. 8).

Tale rapporto, dunque, è intrinseco e alquanto paradossale: la civiltà sarebbe opera di pace, eppure la guerra esprime quest’opera. Tuttavia, forse il paradosso può essere risolto se si tiene conto che il “progresso” o, in termini più neutri, il processo della civiltà ha implicato un progressivo sviluppo tecnico e di conseguenza tecnologico, che ha reso le guerre più terribili e sanguinose:

Se lo Stato è nato dalla guerra, questo contraccambia generandola a sua volta. I loro progressi vanno così di pari passo. Qualsiasi aggravamento della guerra si accompagna al rafforzamento e all’estensione dei poteri dello Stato. E viceversa, ogni nuova responsabilità assunta da quest’ultimo si risolve in una crescita di scala e severità della guerra. Più lo Stato controlla e più la guerra consuma; e questo controlla sempre più affinché essa possa continuare a consumare. La principale preoccupazione di uno Stato diviene così la lotta in cui può essere chiamato a misurare le proprie forze e le proprie risorse contro lo Stato vicino, laddove invece, in un contesto di strutture meno rigide e quasi inesistenti, gli incontri si presentano al contrario come occasioni di scambi e di baldorie, quali feste, fiere e concorsi. Quando lo Stato si costituisce e si afferma, lo spirito di concorrenza prevale sullo spirito di fratellanza. E ben presto, dopo un intermezzo di nobile competizione e di cortese rivalità fra privilegiati, ecco apparire l’epoca dei contrasti assoluti e carichi d’odio, nei quali è l’esistenza stessa della comunità nemica a divenire la posta in gioco di spietati conflitti (pagg. 183-184).

Dunque, di pari passo con la burocratizzazione, con la crescita in effettivi e armamenti degli eserciti, con il consolidarsi territoriale e legislativo, insomma con la nascita dello stato moderno la guerra si è fatta sempre più sanguinosa: «Non è né il coraggio, né lo spirito d’aggressione, né la ferocia a decidere l’intensità della guerra. È il grado di meccanizzazione dello Stato, le sue capacità di controllo e costrizione, il numero e la rigidità delle sue strutture. Nel corso della storia la potenza dello Stato approfitta regolarmente della guerra. Reciprocamente, è il solo incremento di potenza dello Stato a cambiare poco a poco la natura della guerra e spingerla verso ciò che si comincia a chiamare, a partire dall’inizio del XIX secolo, il suo essere assoluto» (pag. 9).

La lunga carrellata storica compiuta da Caillois prende le mosse dalla guerra primitiva e tribale, passando per l’età classica, medievale e cortese, distinguendo vari tipi di guerra a seconda della società e della forma governativa, per giungere infine al vero punto di svolta nella concezione e nella pratica della guerra, ossia alla rivoluzione francese, che non a caso dalla maggior parte degli storici è individuata come albore dell’epoca contemporanea. È da questo momento che viene a cadere la distinzione di classe propria dell’ancien régime tra soldato (spesso aristocratico) e civile (non aristocratico); il cittadino adesso costituisce l’ossatura dell’esercito, la milizia è il popolo stesso, non c’è più bisogno di un esercito di professionisti, perché è tutta la nazione a difendere la patria. Nell’esercito, in effetti, non vi è formalmente nessuna distinzione di rango che dipenda dal sangue o dalla stirpe; le uniche differenze sono dettate dal grado. Per questo, quasi sempre, i gradi più alti erano riservati a volte anche per decreto agli strati nobiliari della società.

Che la democrazia sia strettamente connessa con l’allargamento dell’esercito è un dato di fatto che trova riscontro anche nell’antichità; è strano che Caillois non lo noti, ma l’impero marittimo dell’Atene democratica del V secolo a.C. era fondato appunto sui tanti cittadini assoldati nelle trireme, che andavano a completare la scarna e pressoché inutile cavalleria bennata e la già egualitaria schiera degli opliti. La differenza con l’oligarchica Sparta è netta, abissale, e si misura proprio con questo, ossia con il fatto che le poche migliaia di cittadini spartani – gli spartiati – costituivano un gruppo ristretto di eguali, mentre opliti e rematori ateniesi erano lo stesso popolo democratico di Atene, la polis tout court, in carne e ossa, braccia e gambe, scudi e remi.

Questa identificazione tra esercito e nazione è il caposaldo della democrazia e, ci fosse bisogno di dirlo, vale tanto più dal 1789 in poi. A risentirne è la pratica stessa della guerra, tanto che «la strategia del XVIII secolo non sopravvivrà alla Rivoluzione francese. L’avvento della democrazia coincide virtualmente con quello della guerra totale. La Repubblica non fa differenza tra i diritti del cittadino e i doveri del soldato» (pag. 86).

Uno dei problemi fondamentali di questo stato di cose è che la guerra diventa totale quando la democrazia tende al totalitarismo. Bisogna ricordare che Caillois conchiude quest’opera nel 1962, anche se alcune parti sono state scritte già nel 1951. Siamo nel periodo che va dall’immediato dopoguerra alle tensioni ancora vivissime della guerra fredda. Il totalitarismo aleggia nell’aria come qualcosa di ben più che un fantasma. Per non dire che nella Russia sovietica, nonostante la destalinizzazione, è ancora pressoché in atto. Nei totalitarismi, appunto, si realizza in forma compiuta la totale identificazione del cittadino con il soldato. Non sono mancati gli esempi in cui un regime realizza una

società militarizzata in cui il cittadino, fin dall’infanzia, è rivestito di un’uniforme, istruito negli esercizi guerreschi, cresciuto nel culto e nella pratica della disciplina. Un partito unico si arroga il monopolio della vita politica. Si incarica di fare da tramite tra esercito e nazione, di cui intende accumulare
i poteri, i privilegi e le responsabilità. In concorrenza con l’esercito regolare, questo forma delle milizie nate dal popolo, in cui si presume che l’entusiasmo artificialmente provocato esprima la volontà nazionale. Anch’esse raggruppano gli adolescenti tra i dieci e i vent’anni e, con il pretesto di preparare le reclute al servizio militare, li indottrinano e li fanatizzano. Poi, ad ogni occasione, adescano gli adulti per qualsiasi tipo di parata ed esercizi che perfezionino l’addestramento e, al contempo, esaltino l’orgoglio di servire. Esse alimentano in loro l’ebbrezza di incarnare l’animo eroico della comunità nazionale, la gloria d’essere gli interpreti e gli strumenti del suo destino (pag. 108).

Ovviamente il pensiero corre subito ai fascismi e in particolare alla pervasiva organizzazione nazista della società. Questo regime, inoltre, mette in luce un altro ruolo che riveste la guerra nella società contemporanea, ossia il fatto che essa assume il carattere del sacro. Caillois rintraccia dei parallelismi (ma anche qualche differenza) tra ciò che era la festa per le società primitive e ciò che invece è la guerra nella società contemporanea. La guerra, in definitiva, si è sostituta alla festa; il tempo profano della quotidianità è scandito ora dalle date rosse come il sangue che la sacralità della guerra segna sui calendari del mondo contemporaneo. Certo, nel 1962 certo pacifismo forse velleitario e inconcludente era di là da venire; il ’68, i figli dei fiori, l’estate dell’amore non erano nemmanco nell’aria. Però è vero che, nonostante questo, ancora oggi l’abdicazione alla guerra suona come qualcosa di contrario alla virilità, che ancora gli apostoli e i fanatici di questo mostro sacro tuonino ognidove, e che, se anche nella forma la guerra è osteggia, nella prassi poi non si smetta di fomentarla e alimentarla. La guerra, in sostanza, è una fede, sebbene non sia per forza di cose una religione a tutti gli effetti. Le obiezioni a essa, riproducono lo scenario che si viene a creare quando l’ateo o l’agnostico obietta ai credenti: «Questa situazione riproduce quella di ogni fede di fronte a ogni ateismo. Le buone ragioni sono forse dalla parte dello scettico, ma non persuadono alcun credente. Questi ritengono che l’incredulo lasci sfuggire l’essenziale. Non dubitano del fatto che, negando la divinità, il miscredente non fornisca altro che la prova della sua dannazione. Nel migliore dei casi, gli rimproverano l’ostinato rifiuto di riconoscere realtà che lo trascendono. Si tratta dello stesso atteggiamento degli uomini nei confronti della guerra, e proprio per questo possiamo legittimamente inferire che essa ricopre, per la coscienza comune, il carattere del sacro» (pag. 114).

L’assolutezza della guerra e la coincidenza di cittadino e soldato hanno fatto sì che non si è data più distinzione tra militare e civile. Le uccisioni indiscriminate di “civili”, in maniera alquanto paradossale, sono un portato della democrazia. È ben vero che gli eccessi, gli stupri, le violenze sugli inermi popolani non sono mai mancati, ma questi costituivano quasi un orpello, una nefandezza che nulla aveva che fare con lo scontro bellico vero e proprio. Le battaglie del mondo cortese e cavalleresco si limitavano alla sconfitta – a volte più tattica che effettiva – dell’esercito avversario. Adesso, invece,

l’obbligo di produrre devastazioni su larga scala vieta qualsiasi discriminazione tra le vittime: i civili sono colpiti e perfino presi di mira quanto i militari. Bisogna riconoscere che non sono meno pericolosi, siano essi chimici o minatori, meccanici o semplici manovali. L’operaio contribuisce all’opera di morte addirittura con più efficacia di quanta non ne avrebbe in trincea, in uniforme e con il fucile in mano. Ogni bomba atomica racchiude, in un volume ridotto, il lavoro di una moltitudine, un numero enorme di ore di lavoro, infinitamente ripartite tra migliaia di artigiani. È in effetti giusto tener conto del lavoro che ha prodotto le macchine servite poi a fabbricare quelle da cui nasce, infine, la bomba atomica. Non esiste alcun termine ultimo che saprebbe limitare in modo efficace questa regressione. Nella società moderna, ciascuno svolge un compito frazionario, microscopico, e tuttavia indispensabile al buon funzionamento dell’insieme. Bisogna ammetterlo: lo sterminio indistinto, a cui volentieri ricorre l’odierna strategia, corrisponde a una reale interdipendenza (pagg. 188-189).

Il libro di Caillois è fondamentale per comprendere cosa sia stata e cos’è la guerra. Tuttavia, negli ultimi tempi, forse a partire dal collasso dell’Unione Sovietica, sembra che si assista a un riflusso: la leva obbligatoria è stata abolita in molti Paesi, come per esempio in Italia; la guerra non assume più un carattere esplicito, ma si maschera da missione di pace o da esportatrice di diritti e democrazia. Più che affare tra gli stati, ora essa sembra essere piuttosto uno scontro tra forme di dominio mondiali, tra Occidente e Oriente. Forse la rinuncia alla leva obbligatoria denuncia uno sbiadire della democrazia? E la guerra imperialistica degli Stati Uniti mostra come il resto dell’Occidente non sia che provincia di un impero, condannata a pagare tributi economici e militari? Caillois non ha potuto rispondere a queste domande, per questioni meramente cronologiche.

E tuttavia, nella prefazione aveva visto giusto e ci aveva lasciato un dubbio che sembra tuttora irrisolvibile, circa il dilemma posto dal rapporto che intercorre tra guerra e civiltà: «Potrei spingere la semplificazione fino a formulare questo dilemma in tal modo: o le ineguaglianze sociali tra gli uomini sono codificate e mantenute da riti, costumi e leggi, e allora le guerre sono in generale limitate, cortesi e poco sanguinose, come i giochi e le cerimonie; o gli uomini possiedono eguali diritti, partecipano ugualmente agli affari pubblici e, in questo caso, le guerre hanno la tendenza a trasformarsi in choc illimitati, mortiferi e implacabili. L’uomo sembra non essere ancora riuscito a vincere contemporaneamente sui due tavoli» (pag. 4).
Vincere su entrambi i tavoli, con un lancio di dadi tanto improbabile quanto fortunoso, sarebbe guadagnare finalmente la quiete ontologica e indifferenziata della pace.

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