Le forme della follia

Mimesis, Milano 2023
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Emil Kraepelin (1856-1926) appartiene a quella corrente della storia del pensiero psichiatrico che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, si sforza di costruire un modello clinico fondato su rigorose basi scientifiche: l’orizzonte teoretico sotteso è quello positivistico, rappresentato dalla definizione della malattia mentale in analogia con il modello medico, attraverso la descrizione di quadri clinico-nosografici correlati con specifiche manifestazioni sintomatologiche. Kraepelin vive negli stessi anni in cui la psicoanalisi freudiana inizia a costituire il proprio apparato teorico “psicodinamico” che, al di là delle stesse iniziali pretese scientiste di Freud (la quotidiana pratica clinica metterà tra parentesi il modello fisico-energetico), si porrà come modello alternativo alla scienza psichiatrica ufficiale.

Le due principali entità cliniche indagate da Kraepelin sono la dementia praecox (termine poi mutato nel 1911 da E. Bleuler in schizofrenia) e la psicosi maniaco-depressiva. La psichiatria positivistica fu edificata nel corso dell’Ottocento per opera di altri grandi clinici come W. Griesinger (1817-1868), che definì per primo come in ogni malattia mentale ci fosse un’alterazione cerebrale;1 questa psichiatria, sviluppatasi soprattutto nelle strutture manicomiali, si è sforzata di descrivere in termini “oggettivi” i multiformi sintomi fisici e psichici dei pazienti, riconducendoli a ben individuate malattie: lo psichiatra osserva e ne descrive le caratteristiche fenomeniche, come un naturalista farebbe in campo botanico-zoologico.

L’interesse filosofico di questo testo è rappresentato, oltre che dalla testimonianza circa il dibattito positivistico dell’epoca, dalla esplicita menzione del termine Einfühlung (qui tradotto con il termine “intropatia”) introdotto da Karl Jaspers nella sua Psicopatologia generale (1913): Jaspers, in accordo con la distinzione-contrapposizione diltheyana-storicistica tra scienze naturali e scienze dello spirito,2 afferma la necessità di una comprensione dei vissuti esistenziali del paziente non riducibile alla ‘oggettiva’ descrizione naturalistica dei sintomi. In modo abbastanza sorprendente, Kraepelin ritiene che l’intropatia rappresenti un metodo da utilizzare per «ottenere una comprensione più profonda dei quadri clinici»,3 facendo esplicito riferimento al fatto che la psicoanalisi utilizza questo strumento nella sua ordinaria pratica clinica. Le perplessità di Kraepelin, tuttavia, non tardano a manifestarsi quando aggiunge che l’intropatia, procedimento piuttosto incerto, «come strumento scientifico può condurre a errori anche grossolani (…) perché non abbiamo alcuno strumento oggettivo per valutare l’affidabilità delle affermazioni ricavate dall’intropatia».4

Kraepelin critica, inoltre, il metodo della psicoanalisi, che «pieno di pretese di certezza assoluta, ci mostra chiaramente i pericoli di un approccio la cui correttezza non può essere comprovata con mezzi esterni (…) non fornisce infatti alcuna protezione contro il rischio di autoingannarsi»,5 osservando che molte delle “fantasticherie psicoanalitiche” sono desunte dal racconto degli stessi pazienti. A questo approccio “poetico” e incerto Kraepelin contrappone quella che egli definisce “psichiatria comparata”, giovane disciplina in via di sviluppo, nella quale trovano spazio sia la genetica che il vissuto della storia personale del paziente. Kraepelin è, e intende rimanere, uno “scienziato naturalista”, il metodo osservativo dei fenomeni nella loro oggettività rimane alla base della sua impostazione teoretica, non è disposto a concedere molto credito a “fantasticherie” ma, al tempo stesso, è ben consapevole della multiforme complessità della psicosi, sia nella forma maniaco-depressiva che schizofrenica, auspicando piuttosto un innovativo modello «bio-psico-sociale»,6 nel quale anche le componenti psicologiche e sociali, oltre a quelle genetiche, giocano un ruolo importante nell’evoluzione della stessa malattia.7 Kraepelin, benché nutrisse notevoli aspettative riguardo alla genetica delle psicosi,8 apre quindi una nuova prospettiva teorica e clinica pluridimensionale, rilevando la notevole importanza degli eventi biografici personali e dell’ambiente socio-culturale nel quale si è formato il malato, superando in senso dinamico-evolutivo la rigidità del modello positivistico.

Kraepelin passa poi ad esaminare una lunga rassegna di disturbi mentali che si correlano a malattie organiche, sottolineando come alcune funzioni neuro-psichiche più arcaiche si ripresentino in caso di malattia, evidenziando come alcuni sintomi ritenuti distintivi, come i deliri, in realtà si manifestino anche a seguito dell’effetto di sostanze che producono intossicazioni (i deliri degli alcolisti, per esempio). Nelle riflessioni successive egli propone un nuovo modello nosografico fondato sulla classificazione di tre gruppi principali di “forme” della follia: le forme deliranti, paranoidi affettive, isteriche ed impulsive; le forme schizofreniche e forse anche quelle dominate da allucinazioni; le forme encefalopatiche, oligofreniche e epilettiche.9 Si tratta, in sostanza, di una nuova nosografia dimensionale ed essenzialistica che supera il precedente “categorialismo” delle varie edizioni del suo famoso Trattato di psichiatria, considerato dagli attuali estensori del DSM-III (e successive edizioni),10 come distintivo del suo tipico modo di pensare: ciò dimostra l’incomprensione dell’evoluzione del pensiero del maestro soprattutto da parte della attuale psichiatria “neo-krapeliniana” nordamericana, dalla quale proviene il modello tassonomico-categoriale del DSM. Nelle pagine seguenti, egli cerca di cogliere comparativamente affinità e differenze fra i tre gruppi evidenziati: emergerà, tuttavia, una “rassegnata consapevolezza” circa l’incertezza riguardo alla possibilità di discriminare esattamente i confini di una “genuina” malattia mentale, non esistendo veri e propri sintomi patognomonici che consentano di porre un’autentica diagnosi differenziale, così come invece accade nel caso delle malattie organiche. La schizofrenia, come aveva affermato in precedenza, non solo può comparire «anche senza la distruzione del tessuto cerebrale»11 ma, addirittura, egli arriva a sostenere: «Dovremo abituarci all’idea che i segni clinici utilizzati finora non bastano per permetterci di distinguere chiaramente la malattia maniaco-depressiva e la schizofrenia in tutti i casi»,12 avanzando dei dubbi circa l’esatta eziologia delle stesse e affidando alle ricerche future la speranza di un definitivo chiarimento.

Al di là della indubbia e salda collocazione in ambito positivistico-naturalistico del pensiero clinico di Kraepelin, emerge in questo testo la sua capacità autocritica e dubitativa che lo conduce, appunto, quasi alla fine della sua lunga carriera professionale, ad un profondo ripensamento attraverso la sostituzione del tradizionale apparato nosografico classificatorio di “entità cliniche” con la nozione di “forme”, superando il tradizionale concetto positivistico di “unità di malattia”, mantenuto per anni nella stessa impostazione nosografica dei tradizionali DSM, dei quali solo recentemente vengono sottolineati i limiti teorici e clinici. In conclusione, Le forme della follia rappresenta un testo di elevato valore culturale, il cui interesse si estende ben oltre l’ambito specialistico, cui è prevalentemente rivolto, in quanto ci restituisce fedelmente il complesso travaglio teorico e la capacità autocritica di uno studioso che, tutt’ora, rappresenta uno dei pilastri della storia della psichiatria contemporanea.

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