Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio

Il melangolo - Genova 2019
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Occuparsi filosoficamente del rock è certamente un’esigenza, del resto ormai da anni giustamente sdoganata. Tuttavia, il rischio che si potrebbe correre è quello di rimare impigliati nella rete della cosiddetta pop filosofia, il cui intento è, in fondo, occuparsi di argomenti “pop” per avvicinare il pubblico alle tematiche filosofiche, o quantomeno scovare gli appigli filosofici nei prodotti multimediali o culturali – in senso lato – di massa. Ciò in cui riesce Alessandro Alfieri con Rocksofia, per contro, è qualcosa di genuinamente filosofico: non è che la filosofia non possa occuparsi di argomenti “pop”, ma se ne occupa analizzandoli filosoficamente. In altri termini, ed è ciò che fa Alfieri, non si tratta di una un filosofia pop, quanto piuttosto di una riflessione filosofica su temi e argomenti che fanno parte della nostra cultura anche popolare, o se vogliamo di massa.

Il sottotitolo, Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio, definisce il contenuto del libro in senso tematico e temporale; ma se la delimitazione temporale risulta pacifica (siamo nel periodo compreso tra l’ultimo decennio del XX secolo e i primi due del XXI), non altrettanto lo è la definizione di “hard rock”, che a qualcuno, dati i musicisti presi in esame, potrebbe far storcere il naso. Difatti, in senso stretto, con hard rock si intende quel genere specifico nato a metà degli anni ’60 , con caratteristiche ben precise. Gruppi quali i Green Day, i Radiohead, i Nine Inch Nails, i Tool difficilmente potrebbero essere fatti rientrare nella categoria hard rock tradizionalmente intesa. Alfieri invece la intende in senso più esteso, ossia come «una macroarea che comprende […] il metal e il nu metal, il punk e il neo-punk, l’industrial e il grunge…» (pag. 8).

Il libro è percorso da tre movimenti ispiratori, tre fili che legano la trama del testo e la compongono in maniera unitaria: la dicotomia tra il ruolo e il messaggio in qualche modo anti sistema del rock e il fatto che esso sia comunque nato da una società capitalistica nella prima fase del consumismo, il che costituisce «il paradosso del rock, alla luce del fatto che la sua nascita e la sua esistenza sono iscritte all’interno della cultura di massa e dell’industria culturale» (ibidem); il perdurare di un certo tipo di sentire, di fruire la musica rock e i concerti, soprattutto da parte di una generazione che idolatrava alcuni artisti venti o trenta anni fa e che ancora oggi compie gli stessi rituali e partecipa agli stessi concerti, all’insegna forse della sensazione di qualcosa di perduto e insostituibile, nel sentimento imperante della nostalgia; strettamente legato a questo, il terzo filo conduttore è il nichilismo, il senso di vuoto avvertito da più generazioni “orfane”, per un motivo o per un altro (la morte di Cobain, il progressivo svanire del concerto come evento rituale, l’attesa di nuovo disco che chissà se uscirà mai o se sarà all’altezza dei precedenti…). È il grande vuoto cercato di colmare dal rock, riempimento che acquista sempre più i canoni di una vera e propria illusione: probabilmente è questo vuoto, o meglio la progressiva consapevolezza di questa incolmabile vacanza il vero tema di questo libro.

Le pagine di questo scritto possono risultare interessanti sia per i filosofi, in quanto ottimo esempio di analisi filosofica non solo musicale ma anche di un fenomeno di costume, sia per gli appassionati dei generi musicali compresi nella definizione di hard rock, poiché vi è una trattazione esaustiva delle opere degli artisti presi in esame; ma la scritto potrebbe risultare utile anche a chi si accosti per la prima volta all’ascolto di questa musica. Del resto, Alfieri tratta il tema spesso più da studioso (per quanto appassionato) che da semplice fan. L’interesse più vivo è per il fenomeno di costume piuttosto che per la qualità dei dischi di cui si discute.

Questo giustifica anche la scelta dei gruppi analizzati, dato che possono essere considerati tutto sommato main stream: Nirvana, Pearl Jam, Radiohead, Nine Inch Nails, Rage Against The Machine, Tool, Green Day, Nofx. E tuttavia non ci ingannino questi nomi presenti nei titoli dei capitoli, poiché Alfieri mantiene più di quanto promette: nel testo, infatti, accanto agli artisti qui citati si prendono in esame, pur se spesso in maniera più breve, molti altri gruppi la cui produzione appartiene allo stesso genere di questi più noti.

In definitiva, il libro di Alfieri ci illumina su quale sia stato e qual è il senso del rock come fenomeno di costume, ossia, nella nostra società, come fenomeno di massa. Per comprendere ciò ha effettivamente più senso, al di là del gusto personale, analizzare artisti più noti rispetto a musicisti più di nicchia. Il primo gruppo preso in esame sono i Nirvana. Con loro comincia e finisce tutto, almeno riguardo a ciò di cui stiamo parlando. Giustamente nota Alfieri che il suicidio di Cobain lascia «almeno due generazioni completamente spaesate» (pag. 44). Probabilmente, il rock e quella parte di società di massa che in esso si riconosce non hanno trovato risposta all’interrogativo che è risuonato con il colpo di fucile. Un vuoto che il rock e – ça va sans dire – l’industria culturale si sforzano ripetutamente di colmare. Forse ci vorrà ancora tempo; ma il tempo, oltre a essere musica – ça va sans dire – per l’industria culturale è danaro.

One response to “Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio

  1. Non ho letto il libro e, quindi, non ne conosco il contenuto, ma mi piace tanto la recensione, ti “inchioda” in tutte le cose che non sai e che ti stimola a chiarirti molte idee.

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